IL REPORT

Smart working, Pmi italiane al palo: l’80% dei lavoratori torna in sede

Il lavoro agile non decolla tra le piccole e medie imprese, soprattutto quelle a vocazione manifatturiera operative in Umbria, Veneto, Toscana e Marche. Liguria, Lazio, Lombardia e Piemonte le regioni più all’avanguardia. I numeri della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro

Pubblicato il 23 Ott 2020

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La pandemia da Covid-19 ha naturalmente accelerato il ricorso allo smart working, anche se spesso in una forma più vicina al telelavoro che al lavoro agile, propriamente detto. E ha “costretto” le persone, anche quelle che finora erano state più reticenti, a fare i conti con la tecnologia: secondo un recente report Censis-Auditel 8 milioni e 200.000 famiglie (e 24 milioni e 300.000 individui) hanno utilizzato piattaforme per smart working o didattica a distanza.

Una vera e propria rivoluzione che ora si sta provando a mettere a regime. Per quanto riguarda la PA, l’ultimo decreto della ministra Dadone introduce nuove norme il ricorso al lavoro agile mentre per le aziende, negli incentivi a Impresa 4.0, sono previste agevolazioni per l’acquisto di sistemi che abilitano lo smart working.

Ma gli sforzi del governo rischiano di non bastare di fronte alla “resistenza” all’innovazione che caratterizza una grossa fetta del tessuto produttivo italiano. Secondo l’indagine “Crisi, emergenza sanitaria e lavoro nelle Pmi”, condotta dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, a fine settembre nelle piccole e medie imprese quasi 8 dipendenti su 10, che durante il lockdown avevano lavorato da casa, erano ritornati in sede mentre solo una minoranza (17,7%) proseguiva in remoto.

Diversamente dalle grandi imprese, dove l’esperienza fatta durante il lockdown si è in parte consolidata, tra le piccole aziende la ripresa delle attività ha coinciso in larga parte con il ritorno al lavoro “tradizionale”. Anche in considerazione dei recentissimi dati sull’aggravamento dell’emergenza sanitaria, la maggioranza dei Consulenti conferma che le imprese faranno di tutto per tenere i lavoratori in sede: si esprime in tal senso il 56,9% degli intervistati, mentre il 43,1% pensa che utilizzeranno il più possibile il lavoro da casa.

Solo al Nord Ovest tale indicazione appare più sfumata, e la metà del campione (50,5%) pensa che le imprese favoriranno il lavoro da casa. Tale tendenza mostra una estrema variabilità a livello regionale, con regioni come Liguria, Lazio, Lombardia e Piemonte, dove anche nelle Pmi il nuovo modello di lavoro si va consolidando ed altre dove al contrario questo assume una forma più marginale. Tra queste ultime, vi sono anche regioni a più alta vocazione manifatturiera come Marche, Umbria, Veneto e Toscana.

Tra i principali motivi di ritorno in sede, spicca tra tutti (lo indica il 46,9%) la necessità della presenza per il tipo di attività svolta. Soprattutto per piccole e piccolissime attività commerciali, ristorative e ricettive, o altre che prevedono elevata frequenza di contatto con il pubblico la presenza costituisce un requisito imprescindibile per l’esercizio dell’attività.

Da segnalare è il caso del Sud Italia dove, pur essendo tale item prioritario, assume minore rilevanza rispetto ad altri fattori. A seguire, i consulenti del lavoro indicano altri fattori, che attengono più specificatamente alla cultura e ai limiti organizzativi delle piccole e medie imprese. Il 26,6% afferma infatti che a far propendere per la decisione di tornare in sede è stata la consapevolezza che le aziende non sono sufficientemente attrezzate per organizzare il lavoro in modalità smart, mentre il 22,4% chiama espressamente in causa l’esigenza degli imprenditori di ‘controllare’ meglio i dipendenti, dimensione che dovrebbe essere del tutto ripensata in una logica di lavoro per risultato. Meno importante, ma comunque significativa (12,6%), è la quota di consulenti del lavoro intervistati che dichiara esserci alla base la volontà di non creare discriminazioni tra lavoratori a casa e in sede e l’assenza di un quadro normativo chiavo, che avrebbe spinto per l’abbandono dello strumento (12,4%).

Infine, risultano più marginali altri fattori, quali la valutazione negativa dell’esperienza fatta durante il lockdown (9%), la pressione dei lavoratori per tornare in sede (6,6%), la volontà di ritornare alle normali abitudini di lavoro (6,6%) e la necessità di ammortizzare i costi delle strutture (5,4%).

A conferma di quanto indicato, anche tra le scelte che hanno fatto propendere per proseguire l’esperienza del lavoro agile, più che la volontà di modernizzare l’organizzazione del lavoro, prevale l’impossibilità di garantire, con la presenza in sede di tutti i dipendenti, il distanziamento imposto dalle normative. È questo, secondo la maggioranza dei consulenti interpellati (il 32,2%) il motivo principale per cui le aziende continuano a tenere i lavoratori a casa, in modalità agile (tab. 5). Al confronto, tutte le altre motivazioni risultano secondarie, pur avendo comunque un discreto peso se messe assieme.

Circa il 16-18% del campione, indica infatti, una pluralità di fattori secondari, senza attribuire ad alcuno di essi un valore maggiore: la volontà di sviluppare un’organizzazione del lavoro più innovativa e produttiva (18,3%), l’effettiva applicabilità del lavoro agile alla gran parte dei lavoratori (18%), la possibilità di ridurre i costi aziendali (18%), la pressione dei lavoratori per continuare a lavorare da casa (16,8%, ma al Nord il valore sale al 20%) e l’adeguamento alle indicazioni del Governo (16,1%). Solo l’11,2% chiama in causa la preesistenza di un’organizzazione del lavoro flessibile e orientata al risultato. È infine da segnalare che solo il 17% indica la positiva valutazione dell’esperienza fatta durante il lockdown, valore particolarmente alto al Nord Ovest (22%) e di contro, più basso al Centro e al Sud.

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