DAL 1° APRILE 2024

Smart working solo con accordi individuali azienda-lavoratore. Ma allo studio nuove regole

Stop alla procedura semplificata introdotta con il Covid. Nei contratti necessario stabilire l’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali nonché i tempi di riposo e le misure tecnico-organizzative per assicurare la disconnessione. Intanto in Parlamento inizia la discussione sulla settimana corta

Pubblicato il 02 Apr 2024

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Finisce l’era dello smart working garantito dalle procedure semplificate attivate durante il Covid. Per lavorare da remoto sarà possibile soltanto affidarsi agli accordi individuali tra azienda e lavoratori. Si inizia tuttavia a incardinare in Parlamento la discussione sulla settimana corta: giovedì 4 aprile, in sede referente in Commissione Lavoro della Camera, ci sarà infatti l’avvio dell’esame della proposta di legge delle opposizioni.

Cosa cambia per lavoratori e imprese

L’ultima proroga del termine che ha consentito l’accesso al lavoro agile senza necessità di sottoscrivere accordi individuali e con procedure amministrative semplificate era quella prevista dalla legge di conversione del Decreto anticipi. Il dispositivo aveva esteso le procedure semplificate fino a fine marzo per i dipendenti del settore privato con figli minori di 14 anni e per i soggetti fragili maggiormente esposti al rischio di contagio Covid.

Dal 1° aprile, come detto, è venuta meno anche quest’ultima proroga e per tutti i lavoratori e le lavoratrici, sia del settore pubblico che del privato, tornano in vigore le regole previste dalla legge n. 81 del 2017. In altre parole, lo smart working non è più considerato un diritto del lavoratore, ma solo una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Pertanto, sarà possibile farvi ricorso solamente attraverso un accordo individuale tra dipendente e datore di lavoro.

L’accordo individuale, come indicato all’articolo 19 della legge n. 81/2017, deve essere stipulato in forma scritta e disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, individuando i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.

Oltre alla firma dell’accordo, torna la necessità di inviare le comunicazioni telematiche al Ministero utilizzando l’apposita procedura sul Portale Servizi Lavoro entro i cinque giorni successivi dall’inizio della prestazione o dall’ultimo giorno comunicato prima dell’estensione del periodo.

Alla ricerca di un nuovo equilibrio

Si tratta di una nuova fase per un fenomeno comunque in crescita: dopo i picchi della pandemia e una graduale riduzione negli ultimi due anni, nel 2023 i lavoratori italiani da remoto si assestano a 3,585 milioni, in lieve incremento rispetto ai 3,570 milioni del 2022, ma ben il 541% in più rispetto al pre-Covid. Nel 2024 si stima saranno 3,65 milioni gli smart worker nella Penisola, rileva l’Osservatorio Smart working della School of Management del Politecnico di Milano.

In questo contesto, di fatto “si torna quindi al modello stabilito nel 2017. Il Covid aveva comportato un utilizzo massivo dello strumento, che dall’innovazione organizzativa è migrato verso una finalità emergenziale. Ciò ha generato due effetti di sistema: da un lato sganciando lo smart working dalla finalità propriamente imprenditoriale, ma dall’altro ha dimostrato la sua ampia praticabilità e i suoi benefici anche sul piano sociale”, osserva il giuslavorista Francesco Rotondi, consigliere del Cnel e fondatore dello studio LabLaw. Secondo il Politecnico di Milano quasi tutte le grandi imprese (96%) prevedevano al loro interno iniziative di smart working, in larga parte con modelli strutturati, e con il 20% delle imprese impegnate a estendere l’applicazione anche a profili tecnici e operativi precedentemente esclusi.

Lo smart working era presente anche nel 56% delle pmi e nel 61% degli enti pubblici, con iniziative strutturate presenti soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni. Questa modalità di lavoro – riscontra ancora il Politecnico di Milano – ha generato effetti importanti sull’ambiente: due giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480kg di CO2 all’anno a persona grazie alla diminuzione degli spostamenti e il minor uso degli uffici. Trasformazioni importanti hanno riguardato anche le abitudini: il 44% di chi lavorava da remoto lo faceva – almeno in qualche occasione – da luoghi diversi da casa propria, come spazi di coworking, altre sedi dell’azienda o altri luoghi della città.

“Alla prima fase di scetticismo, è seguita una fase di ottimismo eccessivo, che ha per certi aspetti sottovalutato la necessità di coniugare lo smart working con lo ‘stile organizzativo’ delle imprese”, sottolinea Rotondi. “Il punto di partenza per una analisi matura dello smart working dovrebbe essere il ripensamento del modus operandi della subordinazione, che sempre più deve tendere a rinsaldare il legame tra il modo di rendere la prestazione e i risultati attesi dall’imprenditore. Questo collegamento è insito nella stessa natura dello smart working, come lavoro non misurabile in base al solo tempo della prestazione, con sottoposizione a controlli sul luogo di lavoro, ma anche e soprattutto in base ai risultati prodotti“.

Per questo “si discute della necessità di un restyling normativo delle legge del 2017, anche se la criticità maggiore pare essere quella che riguarda l’adattamento dell’organizzazione aziendale allo strumento. Perché è emersa con prepotenza una istanza sociale che individua nello smart working uno strumento assai efficace di conciliazione dei tempi di lavoro, di cura e di vita, che si spinge fino a invocare un ‘diritto’ allo smart working”, conclude Rotondi.

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