Chi ha paura della Net Neutrality?

Pubblicato il 16 Mar 2009

Un fantasma si agita in Europa e in Nord America: quello della
netwok neutrality. Nel senso che sta poco bene e potrebbe
trapassare presto nel mondo dei più. Da una parte, si moltiplicano
gli affondi di molteplici soggetti (istituzioni, tribunali,
operatori) per riformare un principio fondante della Internet come
l’abbiamo conosciuta finora: il network deve essere neutro.
Cioè, gli operatori non devono discriminare (rallentare,
velocizzare) il traffico degli utenti in base al suo contenuto,
applicazione, servizio, mittente o destinatario dei pacchetti (né
devono essere obbligati a farlo da leggi o tribunali). Quello che
è da vedere è se questo principio necessita una riforma, perché
la rete è cambiata, oppure se debba essere preservato, perché
finora ha assicurato una Internet aperta e innovativa.

È ormai accettato, invece, che un operatore possa fare quality of
service, cioè dare più banda, in caso di necessità, alle
applicazioni che richiedono scambi in tempo reale tra gli utenti e
Internet. È una pratica usata da anni dagli operatori. La tendenza
è in aumento, vista la crescita del traffico sui network e
l’aumento di popolarità della web tv e dei video in streaming e
dell’unified communications (richiedono banda dedicata per
funzionare al meglio). La differenza tra quality of service e
discriminazione non è tanto tecnica (gli strumenti adoperati sono
gli stessi, a livello di nodi e router degli operatori), quanto
pratica e politica. La discriminazione va incontro alle esigenze
delle aziende fornitori di servizi, dell’industria
dell’audiovisivo oppure di lobby di governo là dove ambiscono a
un più rigido controllo delle istituzioni su Internet. Tutti e tre
questi soggetti stanno intensificando le proprie attività. Hanno
cominciato i provider americani a discriminare il P2P a partire da
Comcast e, da febbraio, Cox, il terzo più importante. A febbraio i
provider canadesi hanno ribadito, all’Autorità di
regolamentazione nazionale, il loro diritto a farlo.

L’interesse di alcuni provider è ridurre i propri costi di banda
e/o compiacere l’industria dell’audiovisivo. Adesso cercano
d’imporre l’idea che sia giusto discriminare alcune
applicazioni, se comunicato con chiarezza agli utenti. A gennaio
Tele2 è stata multata dall’Antitrust, in Italia, per averlo
fatto in modo, secondo l’Antitrust, poco trasparente. La tesi
dell’industria dell’audiovisivo cominciano a imporsi nei
tribunali. Quello di Milano ha rifiutato, ancora una volta a
febbraio, il ricorso di Aiip (Associazione dei principali provider
italiani) che non voleva essere costretta a filtrare siti esteri
che vendono sigarette. Temono un crescendo che imponga loro
maggiori responsabilità di controllo sui siti. Come si vede, il
dibattito sulla neutralità non investe solo provider, ma anche
siti, soprattutto quelli che ospitano contenuti degli utenti, come
YouTube o Facebook.
Da ultima, la politica: da qualche settimana è in corso
un’ondata di proposte di legge per imporre ai provider una
qualche forma di responsabilità e obbligo a filtrare, vigilare su
siti e comportamenti di utenti (passibili di violare il diritto
d’autore o altre leggi, come nei gruppi pro-mafia su Facebook).
È il caso dell’emendamento D’Alia, delle proposte Carlucci e
Barbareschi, in contesti diversi. Di contro, si rafforza il fronte
opposto. A febbraio è nata Nnsquad Italia, organizzazione pro
neutralità della rete, costola di un analogo progetto Usa. In
Norvegia, provider e associazioni consumatori hanno firmato un
accordo a tutela della neutralità. Cresce la consapevolezza del
pubblico su questi temi, come dimostrato dall’aumento di test
gratuiti online per capire se il nostro provider viola la
neutralità (per esempio, www.measurementlab.net).

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