STRATEGIE

Di Maio vuole una “Netflix all’italiana”: ma è sulla strada giusta?

Il vicepremier auspica una fuga in avanti del sistema audiovisivo nel Paese. Ma al momento sul suo tavolo si scontrano interessi “old style” che rischiano di rallentare ogni accelerazione verso nuovi scenari. Il modello della società Usa è davvero replicabile?

Pubblicato il 02 Lug 2018

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“Se la prossima Netflix sarà italiana dipende dagli investimenti che facciamo oggi” ha detto il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio. “Una volta che Netflix entra in una casa, il consumo di tv tradizionale cade del 16-30% – ha detto citando un rapporto di Morgan Stanely -. E’ tempo che in Italia si inizi ad anticipare il futuro e a fare investimenti che vanno nell’ottica delle nuove tecnologie e non di quelle vecchie”.

Sembra facile. Ma non lo è, per più di un motivo. Sul tavolo di Di Maio è già arrivata la prima rogna che riguarda, per l’appunto, proprio il destino delle emittenti nazionali e del futuro assetto audiovisivo: le “grandi manovre” che l’Italia deve affrontare per il debutto del 5G rischia infatti di complicarsi compromettendo gli obiettivi dello stesso Di Maio (nei giorni scorsi aveva rilanciato sul tema). Nel percorso di “trasloco” da parte delle emittenti dalla “leggendaria” banda 700 Mhz per far posto al 5G si sta infatti consumando una guerra a colpi di impugnative e missive al Governo all’interno della quale le Tv puntano a ottenere un numero di frequenze maggiore di quelle previste dalla Legge di Bilancio: una guerra, dunque, tutt’altro che “innovativa”, ma che al contrario mira al perpetuamento del modello tradizionale di trasmissione. Vedremo come il ministro del Mise sposterà l’ago della sua bilancia su questo fronte.

Non basta. L’evocazione del modello Netflix per l’Italia non fa i conti con una realtà complessa su cui sono puntati gli occhi di tutte le grandi imprese mondali della filiera audiovisiva e cinematografica. A cominciare dalla potenza di fuoco finanziaria di cui è dotata la società guidata da Reed Hastings, che quest’anno investirà 12 miliardi di dollari in contenuti, più di qualsiasi major hollywoodiana (Warner Brothers quest’anno ne produrrà solo 23, Disney 10). Le sue ambizioni vanno però anche oltre Hollywood: sta realizzando in 21 paesi, tra cui Brasile, Germania, India e Corea del Sud. In più sta ingaggiando registi non solo famosi, ma anche di grande qualità (tra gli altri Spike Lee, i fratelli Wachowski e i fratelli Coen) e sta mettendo insieme una squadra di affermati autori televisivi (Ryan Murphy creatore di “Glee” a Shonda Rhimes creatrice di “Grey’s Anatomy”). Anche Barack e Michelle Obama hanno firmato un accordo di produzione. Il denaro aiuta: l’accordo con Murphy vale circa 300 milioni di dollari. In un’altra parte dello studio di Goldman Sachs citato da Di Maio si dice che la società potrebbe investire 22,5 miliardi di dollari in contenuti entro il 2022.

Prospettive che hanno indotto il mercato a valutare Netflix a 170 miliardi di dollari, più di Disney.

Non tutti sono ottimisti però: i pericoli sono di tipo finanziario, nota l’Economist che alla “Netflixonomy” dedica due articoli. Molti analisti sottolineano il fatto che la società non abbia ancora realizzato un profitto e che abbia un debito di 8,5 miliardi. Inoltre per giustificare la sua iper-valutazione attuale Netflix dovrebbe registrare nell’arco di un decennio profitti operativi lordi pari alla metà dei profitti realizzati dalle major Usa quest’anno.

Mentre i suoi concorrenti stanno preparandosi a competere stringendo accordi (AT&T- Time Warner) o tentando di farlo (Comcast punta a 21st Century Fox di Murdoch ambita anche dalla Disney).

Amazon, Apple, Facebook, YouTube e Instagram stanno investendo risorse per non farsi mettere all’angolo: “Il fatto è che la prima domanda che si fanno tutti è: come competere con Netflix?” è il mantra generale.

La crescita di abbonamenti internazionali (del 42% nel 2017) indica che la strategia funziona, ma ci sono diverse sfide all’orizzonte. Per esempio il modello di abbonamento a è facile da cancellare: secondo la società di ricerca MoffettNathanson il tasso di abbandono è del 3,5% al ​​mese, più alto di quello della pay-TV. Un secondo problema è rappresentato dalla fame di larghezza di banda: i consumatori Netflix nel mondo “mangiano” un quinto della larghezza di banda. In più nei mercati che non dispongono di norme a favore della neutralità della rete (come negli Usa), nota l’Economist, i provider Internet dominanti potrebbero decidere di dare la precedenza ai propri servizi di streaming.

Viene valutata anche la possibilità che Netflix possa distruggere il “vecchio” mondo dei media, adombrato anche da Di Maio, strozzando ogni tipo di concorrenza e monopolizzando di fatto la TV. Uno scenario, nota l’Economist, che potrebbe consegnare nelle mani degli algoritmi “enormi quantità di potere culturale: svuoterebbe il supporto alle emittenti di servizio pubblico riducendo il loro pubblico, e lasciando gli utenti più poveri con meno opzioni di intrattenimento a prezzi accessibili”. Con tutti gli effetti collaterali del caso: per esempio l’azione, finora evitata, di regolatori e politici.

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