Da tempo nel mondo della comunicazione commerciale uno dei temi più ricorrenti è quello degli influencer. Il valore dei loro post dipende dal numero di followers che dichiarano di avere. Non ci sono solo i grandi nomi, ma anche i micro influencer, ragazzi di tutte le età che si candidano o vengono reclutati dalle aziende per scrivere post sui loro profili social. Esiste un principio cardine della normativa in materia di comunicazione: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale. Ebbene, si sa che gli influencer vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che li hanno ingaggiati.
Lo schema appena descritto è a tutti gli effetti una vera e propria attività pubblicitaria: un soggetto, a fronte di un pagamento o di un regalo, veicola informazioni positive su un prodotto o un servizio per promuoverne l’utilizzo presso target ben definiti. Accade spesso che questo schema non sia accompagnato da alcun disclaimer idoneo e rendere palese la natura pubblicitaria del post. I soggetti preposti a vigilare e sanzionare le pubblicità che non si presentano come tali si sono mosse, cercando di redigere delle linee guida (lo IAP) ed inviando lettere di moral suasion ad aziende ed influencer (l’Agcm). Se le aziende conoscono pienamente le regole da seguire, così come le conoscono gli agenti degli influencer come è possibile, ci si chiede, che il principio della trasparenza venga costantemente violato? Le ragioni, ad avviso di chi scrive, forte dell’esperienza maturata in due anni di attività del Digital Adv Lab, sono due.
La prima: un commento positivo del proprio “idolo” su un prodotto, se si pensa che sia genuino e quindi non sia indotto dall’esistenza di un contratto e di una remunerazione con l’azienda che lo commercializza, ha molta più presa sul pubblico.
La seconda: nella catena che lega l’influencer al suo agente e quest’ultimo all’azienda, è possibile che si perdano dei passaggi. E a nulla vale che l’azienda rediga inattaccabili clausole di manleva (che l’agenzia ribalta sull’influencer), che la esonerano da responsabilità verso terzi, autorità comprese, in caso di mancato utilizzo di quelle espressioni che rendono palese la natura pubblicitaria del post o del racconto privato. Le suddette autorità, in primis, si rivolgono alle aziende la cui reputazione ed il cui portafoglio vengono messe a repentaglio dalle “marachelle” degli influencer e dei loro agenti. Indicativo è quanto accaduto recentemente ad una nota casa automobilistica che è stata condannata dal Giurì della Pubblicità a rimuovere un post di uno dei più famosi influencer.
La storia è interessante e istruttiva proprie per le aziende. L’influencer in questione aveva stipulato un contratto con la casa automobilistica e si era impegnato a svolgere determinate attività, tra cui la pubblicazione sulla sua pagina Instagram di video, fotografie e IG Stories, individuati dettagliatamente nel contratto, in virtù del quale, tra l’altro, si era obbligato a rendere nota la natura pubblicitaria dei contenuti postati che avrebbero dovuto essere sottoposti preventivamente alla casa automobilistica per approvazione.
Senonché un bel giorno l’influencer si reca nello stand della casa automobilistica allestito all’interno di un luogo dove si stava svolgendo un’importante competizione sportiva, e decide di pubblicare sulla sua pagina Instagram un video che racconta la sua esperienza a bordo della vettura. Trattandosi di un racconto “privato”, che, sulla base di quanto affermato dalla agenzia dell’influencer e dalla casa automobilistica, esulava dall’impegno contrattuale assunto, l’influencer non ha utilizzato alcuno di quegli accorgimenti suggeriti dalla Digital Chart e dall’Agcm ed indicati nel contratto con la casa automobilistica. Il Comitato di Controllo del Giurì ha quindi inviato un’ingiunzione alla casa automobilistica ed all’agenzia dell’influencer. Quest’ultima ha deciso di proporre opposizione per fare valere i suoi diritti. Si è quindi aperto un procedimento che si è concluso con una decisione in forza della quale il Giurì, pronunciandosi solo nei confronti della casa automobilistica, ha stabilito che “il messaggio in esame ha un obiettivo effetto promozionale ed è pertanto in contrasto con l’art. 7 del Codice di Autodisciplina e ne inibisce la riproposizione con qualsiasi mezzo”.
Si legge nella decisione che, al di là dell’esistenza o meno di un contratto, la “material connection” con l’inserzionista era palese alla luce del fatto che il video era stato girato nello stand della casa automobilistica e riprendeva le autovetture ivi esposte. Sembrerebbe quindi che per il Giurì esista una presunzione circa l’esistenza di un rapporto “commerciale” se vengono ripresi nei post e nelle “storie” prodotti e marchi dell’azienda. E’ già accaduto che il Comitato di Controllo del Giurì abbia inviato alle aziende ingiunzioni di desistenza. Ma cosa succede se davvero l’influencer agisce in totale autonomia e al di fuori di un vincolo contrattuale? Le aziende, oltre a doversi porre un problema di “brand safety”, potranno difendersi solo facendo opposizione all’ingiunzione e quindi aprendo un procedimento e sostenendone i relativi costi, che, sulla base delle regole del contenzioso autodisciplinare, non verranno loro rifuse in caso di esito del procedimento favorevole per l’azienda.
E’ bene ricordare che le suddette ingiunzioni possono essere notificate solo alle aziende che aderiscono al sistema autodisciplinare. E tutte le altre? All’Agcm l’ardua sentenza. Insomma chi pensava che con la cristallizzazione di regole chiare il fenomeno degli influencer fosse “sotto controllo” (aziende comprese), si sbagliava di grosso. Il futuro è pieno di sorprese.