Non è un articolo sugli e-book, sulle librerie online, su altri
aspetti virtuosi del passaggio al digitale ma su un curioso
paradosso: l’avvento di Internet e particolarmente del 2.0 e
successivi ci sta riempiendo di carta stampata inutile.
Meri vettori di pubblicità commerciale travestiti da giornali
tagliando e incollando lanci di agenzia, ma anche libri traballanti
pubblicati da case editrici improbabili che non troverete in
nessuna libreria ma servono a soddisfare le ambizioni di qualche
erudito di provincia o a affrontare qualche concorso
universitario.
Si chiama “publishing on demand”: si paga un tanto a pagina, si
presenta un manoscritto e questo viene trasformato in qualcosa di
simile ad un libro, con copertina, indici, e nessun controllo o
intervento sulla qualità e il contenuto.
L’editore appone il sospirato codice Isbn, l’International
Standard Book Number, un codice di 13 cifre che identifica
permanentemente il volume e lo qualifica come tale
(http://www.isbn.it/HOME.aspx), fa stampare un piccolo quantitativo
di copie del manoscritto e le consegna all’autore. La
distribuzione è un optional.
Naturalmente, si tratta di iniziative legittime, che rientrano
nella libertà di espressione costituzionalmente sancita. Ma la
libertà di critica è altrettanto garantita e ci sentiamo di fare
alcune osservazioni. Adesso è possibile stampare micro-tirature;
l’editing del testo e la messa in pagina si fanno al computer, la
componente redazionale del lavoro editoriale in molte mini-case
editrici è ridotta al minimo. L’editore – in questi casi –
non ha una sua linea editoriale orgogliosamente ribadita dai libri
che pubblica e che vengono a formare il suo catalogo; non sceglie,
non discute con l’autore, non raduna comitati editoriali e non
acquisisce valutazioni scientifiche sul testo che gli viene
proposto. Non distribuisce diritti d’autore ma anzi si fa pagare
per la pubblicazione, come se si trattasse di biglietti da visita o
di calendari natalizi.
È possibile affermare, senza essere scambiati per nemici del
libro, che questa traballante editoria on demand poco aggiunge alla
cultura? Che produce un rumore di fondo e viene meno ad alcuni
importanti principi della professione di editore? Un editore che
non è né un autore, né un libraio, né un tipografo, ma un
organizzatore di cultura di cui io mi fido, quando acquisto un
volume con il suo marchio. Questi principi non vengono intaccati
dall’avvento degli ebook. La distribuzione digitale anzi li
conferma, e in qualche modo li rafforza.
FRONTE DEL VIDEO. Publishing on demand: così il Web 2.0 ci sommerge di carta
Pubblicato il 21 Mar 2011
Canali
EU Stories - La coesione innova l'Italia