L'INTERVENTO

Hate speech, Stormfront fa scuola. Ma le sentenze “repressive” non bastano

La condanna in primo grado di 25 persone alla pena della reclusione può fare certamente da deterrente. Ma c’è bisogno di campagne educative e di modelli di comunicazione digitale che dissuadano il pubblico dall’intraprendere comportamenti discriminatori e violenti

Pubblicato il 26 Feb 2020

Luciano Daffarra

avvocato studio legale C-Lex

hate speech-odio

Si rischia grosso. L’hate speech termine inglese che possiamo tradurre con “discorso d’odio” in tempi recenti ci ha riproposto reminiscenze passate, pagine nere di cui vergognarsi. Invece, complici la diffusione di modelli di comunicazione e di dialogo sempre più digital, il web e i social network sono diventati gli strumenti più utilizzati per incentivare l’odio razziale.

Oggi possiamo dire che esiste un precedente giudiziario in materia, il processo “Stormfront”, che potrebbe riscrivere un altro tipo di storia in termini di deterrenza del fenomeno delle frasi d’odio. Infatti, lo scorso 10 febbraio la I Sezione Penale del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado 25 persone alla pena della reclusione compresa fra il massimo di tre anni e dieci mesi e il minimo di un anno proprio per i reati di istigazione all’odio razziale e di diffamazione aggravata. Si tratta di una decisione strettamente collegata al precedente troncone dell’omonimo procedimento penale che si è chiuso in via definitiva con la sentenza della Corte di Cassazione del 16 febbraio 2016 (n. 34713/2016, Prima Sez. Penale), ha inflitto ai quattro imputati, promotori della sezione italiana del sito web Stormfront, pene variabili fra due anni e sei mesi e due anni e due mesi.

Le contestazioni di istigazione all’odio razziale, di esaltazione del neonazismo e della diffusione di messaggi diffamatori sono stati rivolte agli indagati principalmente per avere indirizzato il proprio odio nei confronti delle parti civili costituite. Quest’ultime, sono state invero vittime di reiterate aggressioni mediatiche lesive della loro persona e dei loro valori morali. I suddetti comportamenti sono stati posti in essere continuativamente per un lungo lasso temporale che copre oltre quattro anni dal 2009 al 2013, anno in cui il procedimento penale è stato avviato dalla Procura della Repubblica di Roma.

Il sito web Stormfront.org, i cui server – attualmente oscurati nel nostro Paese per ordine dell’autorità – sono basati in Florida, aveva creato una “sezione italiana”, composta di cinque “forum” in cui venivano postati gli argomenti di discussione (“thread”) fra i diversi partecipanti, ciascuno identificato da un proprio ”nickname”. Il contenuto delle discussioni (e delle prese di posizione dei singoli partecipanti) veniva orientato dai moderatori, alcuni dei quali hanno teso a favorire la diffusione di contenuti fortemente offensivi di chiunque appartenesse a razze o professioni religiose diverse da quelle proprie della c.d. “razza bianca”. Di conseguenza, attraverso una complessa rete di scambi di “post” diffamatori e di espressioni di adesione ai disvalori del nazismo e dell’odio razziale – a giudizio del Collegio – gli imputati si sono resi colpevoli della violazione delle norme della Legge Mancino (Art. 3 della L. 654/1975) e dell’art. 595, terzo comma, del codice penale.

Quali nuovi scenari può aprire questo processo? Intanto esso certifica che per questi reati esiste una sanzione penale rigorosa: chi compie atti di istigazione all’odio razziale, di esaltazione del neonazismo e trasmette messaggi diffamatori, rischia la reclusione. Poi c’è l’effetto deterrente che deriva dall’applicazione di una pena severa, a molti degli imputati (quasi tutti) a seguito di un lungo processo che – secondo il parere di molti – è già un’anticipazione della pena.

Per fronteggiare adeguatamente questi comportamenti e per ridurre drasticamente questo fenomeno criminale non è sufficiente adottare un modello repressivo forte; serve anche promuovere campagne educative e sviluppare modelli di comunicazione digitale che prevengano e dissuadano il pubblico dell’intraprendere comportamenti discriminatori e violenti nei confronti delle persone. Previsioni di questo tenore sono contemplate sia nel DDL S-634 d’iniziativa dei senatori Boldrini, Iori e altri, comunicato alla Presidenza l’11 luglio 2018 e recante “Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di contrasto dell’istigazione all’odio e alla discriminazione (hate speech)”. Misure volte a ridurre gli atti diffamatori a mezzo dei mezzi di comunicazione di massa sono poi contenuti nel disegno di legge S-812 (di iniziativa dell’on.le G. Caliendo) che reca: “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato”. A fronte di queste proposte di legge, si tratta ora di comprendere quale possa essere la tempistica del loro passaggio parlamentare e se il loro varo si porrà in linea con le esigenze di certezza del diritto che questi casi impongono.

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