È uno Steve Jobs austriaco il salvatore di Leica, uno dei marchi-simbolo della tecnologia analogica che era stato quasi travolto dalla rivoluzione digitale all’inizio del ventunesimo secolo. Una storia da raccontare per capire come le aziende europee tradizionali si possono salvare cavalcando la rivoluzione hi-tech e offrendo una alternativa ad asiatici e statunitensi.
Se sugli altari della cronaca è salito Jobs, che con il suo ritorno alla guida di una morente Apple nel 1997 è riuscito a creare la più grande azienda per capitalizzazione di mercato, in futuro un posto dovrebbe essere riservato anche a Andreas Kaufmann, elusivo ma determinato imprenditore austriaco che ha acquistato la maggioranza della tedesca Leica con la sua società di investimenti Acm Projektentwicklung di Salisburgo e con la partecipazione del fondo americano Blackstone, che ha una quota di minoranza. Tanto da arrivare non solo all’attivo (e all’azzeramento del debito) finanziando lo sviluppo e i futuri prodotti con il proprio cash-flow, ma anche al delisting dalla Borsa di Francoforte alla fine del 2012, trasferendo le quote a Lisa Germany Holding, società interamente controllata da Acm e da Blackstone.
La storia di Kaufmann è singolare quanto il lavoro fatto per Leica. L’imprenditore arriva al mondo della finanza e del business dopo aver studiato arte, tedesco e scienze politiche, partecipato al Sessantotto e insegnato dal 1983 al 1998. “Formare le nuove generazioni è un atto rivoluzionario”, dichiara in un’intervista, spiegando il suo impegno nella scuola di Waldorf-Rudolf Steiner. Poi, la svolta capitalistica. Dal 1998 al 2002 fa esperienza nelle società di famiglia: con i due fratelli eredita le più grandi cartiere austriache, di proprietà dei Kaufmann per 101 anni. Intuendo che il mercato della carta sta morendo, a partire dagli anni Novanta i tre vendono le azioni creando la società di investimento Acm dalle iniziali dei loro nomi. Il primo acquisto è un’azienda di ottica, la Weller Feinwerktechnik, vicino a Wetzlar, dove ha sede Leica (produce strumenti ottici di precisione oltre alle fotocamere). Poi, nel 2002, Acm acquista anche la piccola Via Opti, fornitrice di Leica, e Kaufmann, che non è appassionato di fotografia e a malapena conosce il marchio dell’azienda, entra in contatto con vari manager Leica.
Alla fine la decisione: entra nella proprietà di Leica che sta andando in bancarotta, con l’idea di ristrutturare e ripartire. I fratelli di Kaufmann si spaventano ed escono da Acm, mentre l’imprenditore austriaco resiste. Anche se per crederci bisogna avere molta fiducia in se stessi: il mercato analogico implode, quello digitale cresce alla grande. Leica come tutta risposta proprio in quegli anni lancia una campagna (Kaufmann la definisce “suicida”) in cui si vanta di essere “il dinosauro della pellicola” in un mondo dominato dai mammiferi giapponesi del digitale.
La storia del dinosauro è comunque straordinaria: nata come azienda per le ottiche di precisione nel 1849, fondata dal ventitreenne Carl Kellner, nel 1869 rinasce con il nome Leitz dal nuovo fondatore, l’allora ventiseienne Ernst Leitz. Due ricercatori sono però strumentali al successo di Leitz: Oskar Barnack, capo dei laboratori di ricerca, e Max Berek, talento assoluto nella progettazione delle lenti. Barnack, appassionato di fotografia e malato d’asma, stanco di trascinare le voluminose macchine su treppiede di inizio ‘900, nel 1913 inventa la prima Leica (contrazione di Leitz Camera), che è per la prima volta tascabile, dotata di telemetro e usa la pellicola 35 millimetri del cinema, di qualità e poco costosa.
La super-compatta esordisce dopo la Prima guerra mondiale e per trent’anni incarna il mito del fotoreporter: da Robert Capa a Henri Cartier-Bresson passando per i fotografi Magnum e moltissimi dei grandi nomi anche italiani (da Tazio Secchiaroli a Mario Dondero). Un mito per una nicchia di puristi (fotocamera a telemetro solida, messa a fuoco solo manuale, senza fronzoli e con ottiche fisse) con prezzi altissimi (5-6mila euro per un corpo, da 4 a 10mila per una lente) ma destinata al fallimento. Arrivando al punto di cambiare nome all’azienda nel 1986 (da Leitz a Leica) e città (da Wetzlar a Solms) pur di tenere il passo con il mercato.
Siamo alla crisi e all’arrivo di Acm. “Ho cambiato tutto, e ho progetti molto ambiziosi per i prossimi quattro o cinque anni”, spiega Kaufmann che dopo aver preso il controllo dell’azienda ha rivoluzionato il management e investito nel digitale mantenendo però l’attenzione per l’originalità del marchio. Macchine fotografiche lavorate a mano, eccellenti e di posizionamento molto alto, ma con le ultime tecnologie digitali tra sensori e processori. Il primo esperimento nel 2008-2009 (M8 ed M9) con due generazioni di sensori Kodak con tecnologia Ccd, poi il passaggio al sensore Cmos full frame progettato in Europa da Cmosis e realizzato in Francia da ST Microelectronics, mentre il cuore è nel processore Maestro, sviluppato da Leica e basato sulla famiglia Milbeaut di Fujitsu. Operazione riuscita: ancora oggi prendere in mano una Leica M Typ 240 è soprattutto un’emozione, e la qualità delle immagini prodotte è superiore di gran lunga a quello che sono capaci di fare i giapponesi.
La fortuna aiuta gli audaci perché l’antica impostazione a telemetro del prodotto-simbolo dell’azienda, la Leica M, compete perfettamente con le nuove mirrorless (le ultimissime di Fuji, Panasonic, Olympus, Sony e Samsung) e “tiene” nel mercato della fotografia digitale che si sta contraendo per via degli smartphone.
Intanto Leica torna a Wetzlar in un’avveniristica fabbrica per la lavorazione dei metalli e del vetro, lancia nuovi prodotti (Leica T), compie 100 anni dalla prima ur-Leica e 60 con la linea M, e a partire dal 2012 riprende il controllo della distribuzione in molti Paesi, non ultima l’Italia, cominciando ad aprire una catena di negozi di proprietà (anche qui, l’esempio corre agli Apple Store) tra cui San Francisco e Milano, Tokyo e Berlino. Accanto a pochi prodotti dell’azienda ci sono mostre di fotografie, spazi per workshop, tutto all’insegna di un arredamento Bauhaus che sarebbe piaciuto a Ludwig Mies van der Rohe e al suo “less is more”.
L’operazione rebranding ha successo: i conti che nel 2012 già andavano bene continuano a migliorare: il Made in Germany nella meccanica di precisione ma anche nel lusso attacca sui mercati. Lo dimostrano marchi di orologeria come A.Lange & Sohne, Sinn, Nomos, e Porsche nel settore automobilistico. La strategia di Kaufmann è portare il brand accanto a questi marchi di lusso: in meno di 10 anni ha centrato il bersaglio.