Musica, la burocrazia italiana blocca lo sviluppo digitale

Non decolla il business italiano di musica online. E fra le cause un eccesso “di segmentazione delle procedure” per la gestione dei diritti, dice Luca Barbarito esperto della Iulm

Pubblicato il 25 Gen 2010

La nuova economia trasforma l’industria della musica, trasferendo
le attività di distribuzione e fruizione sempre più dai supporti
fisici a quelli digitali: i brani si scaricano da Internet o dai
gestori di telefonia su computer, cellulari e lettori. Come nota
l’ultimo studio della Fondazione Università Iulm “Economia
della musica digitale 2009”, le vendite di supporti fisici
costituiscono una frazione sempre meno rilevante dei ricavi totali
per le case discografiche e per gli editori musicali. Il trend è
in atto da alcuni anni a livello mondiale e anche se le vendite dei
prodotti fisici restano prevalenti (generano 21,8 miliardi di
dollari, il 78% del totale, mentre il mercato digitale raggiunge un
fatturato di 6,1 miliardi di dollari), la quota del mercato
digitale continua ad allargarsi: solo un anno fa la ripartizione
era 84% alle vendite fisiche e 16% al digitale. Come valore, le
vendite digitali sono aumentate nel 2008 del 29% confermando il
trend del 2007 (+34%).

La sviluppo di questo settore non è però uguale in tutti i Paesi
e l’Italia presenta un quadro a tinte contrastanti. Se da un
lato, il mercato della musica digitale è l’unico che cresce da
noi (+35% dal 2007 al 2008, per un fatturato di 38 milioni di
euro), dall’altro le sue dimensioni sono ancora poco sviluppate.
La musica digitale rappresenta il 36% del mercato della musica
negli Usa (leader al mondo), il 20% in Giappone (secondo), il
14-15% in Uk (terza a livello globale e prima in Europa), il 9% in
Italia.

Il confronto internazionale, insomma, evidenzia come ci siano
ancora “molti margini di aumento”, sottolinea Luca Barbarito,
professore associato di economia applicata allo Iulm e coordinatore
della ricerca. “Il mercato digitale rappresenta in Italia meno
dell’1% del valore complessivo delle vendite di dischi e anche se
il tasso di crescita è maggiore che altrove, il mercato britannico
è 8 volte più sviluppato di quello italiano, quello francese è
sei volte più grande del nostro, quello tedesco quattro volte più
grande”. Perché? “Soprattutto per il problema della gestione
dei diritti e la difficoltà di sviluppare modelli di business”,
risponde Barbarito.

“Richiedere i diritti per la musica digitale è complicato, ci
sono molti attori coinvolti che vanno remunerati e la segmentazione
delle procedure limita le iniziative imprenditoriali”, spiega il
professore. “Un altro ostacolo è lo scarso sviluppo dei
micropagamenti, anche per le commissioni troppo alte. Non vedo un
freno invece nella diffusione della banda larga, che è già a buon
punto e sufficiente per il mercato della musica digitale”.

A quali modelli dovrebbe guardare l’Italia? “In Nord Europa
sono stati sviluppati meccanismi di grande efficacia come
l’offerta della musica in bundle col servizio di connessione
Internet, pagando appena 5 euro in più al mese: così si scarica
legalmente tutta la musica che si vuole. Ma occorre che le telecom
e gli Isp si alleino con le case discografiche anziché sentirsi in
concorrenza: tutti possono guadagnare da questo modello. Un altro
esempio è quello della britannica Spotify.com: la musica è gratis
ma accompagnata dalla pubblicità. Chi non vuole gli spot paga un
abbonamento mensile di 10 euro”.

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