E’ guerra aperta tra Netflix e il Festival di Cannes. O meglio, tra due modelli industriali dell’entertainment: il mondo “tradizionale” centrato su un sistema di produzione e distribuzione che fa perno sull’uscita nelle sale, di cui Cannes è portabandiera. E il modello Usa-centrico di streaming adottato da Netflix (e in maniera meno radicale da Amazon) che salta il passaggio nei cinema mandando in fumo regole consolidate di distribuzione del valore.
Alla vigilia dell’apertura di Cannes – 8 maggio – scoppia la polemica tra Reed Hastings Ceo dell’azienda di streaming video e il direttore del festival Thierry Fremaux che rilancia il divieto già maturato nella scorsa edizione: niente passaggio in concorso per i film che non debutteranno nelle sale cinematografiche. E Netflix ora minaccia di disertare del tutto la prestigiosa manifestazione.
“L’anno scorso, quando abbiamo selezionato due film, credevo che avrei potuto convincere Netflix a distribuirli nelle sale. Ero fiducioso, ma hanno rifiutato. “L’intransigenza del loro modello è esattamente l’opposto della nostra”, ha detto Fremeaux. Secondo una nuova regola francese i distributori devono aspettare 36 mesi dopo l’uscita in sala prima di rendere disponibile un film sui siti di streaming: una prospettiva che rende meno allettante per Netflix la partecipazione al Festival.
Ma a chi serve lo scontro? Netflix è già così potente rispetto all’industria cinematografica e al suo intero sistema di distribuzione da poter trattare con Cannes? Ce la farà a vincere la partita pur rifiutandosi di attenersi alle regole?
Forbes, la testata finanziaria Usa, attacca la politica di Cannes che si inserisce “all’interno di una lunga tradizione francese di protezionismo tecnologico e culturale: sotto l’ombrello della exception culturelle, i film francesi hanno per molto tempo ottenuto sussidi e agevolazioni fiscali: del resto per anni la Francia ha cercato di stabilire un’alternativa francese a Internet nota come Minitel”.
D’altro lato la Palma d’oro viene considerata seconda solo all’Oscar per le ricadute sull’attrattività del prodotto e del brand: l’eventuale etichetta di film “non idonei” ai festival rischia di danneggiare il coinvolgimento di registi di alto profilo nel servizio di streaming nonostante i forti investimenti nella produzione.
E Netflix ha bisogno di prestigio, almeno per compensare la differenza di modello di business rispetto alle major. Nei propri accordi di produzione di contenuti originali la piattaforma chiede infatti ai registi una scommessa più alta: a differenza dei “tradizionali” contratti che prevedono per registi e star un compenso base anticipato e un secondo pagamento, più congruo rispetto al primo, in base al successo ottenuto al botteghino, non potendo contare su profitti generati dall’uscita nelle sale i contratti Netflix contemplano un unico compenso. Inoltre la piattaforma non ha dalla sua incassi prodotti da vendite a TV.
Dunque per la piattaforma il coinvolgimento delle “grandi firme” si basa unicamente su budget superiori a quelli offerti dagli “studios”. Ma i soldi non sono sufficienti a spingere il business: serve la benedizione delle giurie di Cannes o degli Oscar per acquisire un “bollino di qualità” utile all’acquisizione di nuovi abbonati, soprattutto sul mercato internazionale.
Oltretutto si fa sentire la pressione esercitata dalla rivale Amazon Video che a sua volta punta a definirsi come la più prestigiosa società di streaming. La piattaforma di Jeff Bezos ha già incassato un Oscar. E non fanno gioco a Sarandos neanche dichiarazioni come quella di Steven Spielberg secondo cui “film che fanno solo presenza simbolica nelle sale non possono qualificarsi per le nomination agli Academy Award”.