Più Web e meno territorio nel futuro delle banche

Le regole di Basilea 3 riaccendono le discussioni sul modello strategico delle banche italiane che faticano ad adattarsi al nuovo contesto macroeconomico: l’attuale rete di filiali è inadeguata. Molto meglio puntare sulle potenzialità di Internet

Pubblicato il 16 Nov 2010

Le nuove regole sui requisiti patrimoniali (Basilea 3), approvate
al vertice del G20 a Seul, sono destinate a riaccendere le
discussioni circa il modello strategico delle banche italiane,
scrive Rony Hamauy su La Voce.info. Questo sia perché i mercati
finanziari costringeranno le grandi banche ad adeguarsi ai nuovi
standard molto più velocemente di quanto previsto dalle autorità
di vigilanza, sia perché queste ultime tenderanno a interpretare
la nuova regolamentazione in termini restrittivi, come requisiti
minimi. Esemplari in proposito sono i casi Deutsche Bank o Standard
Chartered, che hanno deciso aumenti di capitale record, e
l’annuncio delle autorità svizzere con la richiesta per le loro
principali banche di detenere un capitale più che doppio rispetto
a quanto previsto dalle regole in discussione: è il cosiddetto
“Swiss finish”, a cui presto potrebbe seguire un “British
finish”.

LA PRUDENZA NON BASTA

In questo contesto, è molto probabile che anche le autorità di
vigilanza italiane vogliano mostrarsi molto prudenti, soprattutto
nei riguardi delle grandi banche e che queste debbano adeguare più
rapidamente del previsto i loro coefficienti patrimoniali i quali,
come ha più volte sottolineato Marco Onado, si collocano nella
fascia bassa della forchetta internazionale.
Sinora, con azionisti di maggioranza che non vogliono perdere il
controllo e non possono permettersi di finanziare fori aumenti di
capitale, l’approccio seguito dalle principali banche italiane è
stato molto prudente. Da una parte, hanno sottolineato la bontà
del loro tradizionale modello organizzativo e confidato che la
ripresa economica e la risalita dei tassi avrebbe permesso di
generare profitti sufficienti, non solo per remunerare i loro
esigenti azionisti, ma anche per accrescere il loro capitale di
vigilanza. Dall’altra, hanno annunciato operazioni di così detto
capital management: quotazioni Fideuram, disimpegno da Pioneer,
vendita di qualche banca minore, eccetera.

Tuttavia, i bilanci trimestrali recentemente approvati dalle
principali banche italiane hanno messo in luce difficoltà a
riportare i profitti non solo ai livelli pre-crisi, ma in taluni
casi anche a valori accettabili per remunerare il capitale. Questo
contrasta con quanto conseguito da numerose grandi banche estere
che, dopo le forti perdite del 2007 e 2008, hanno visto una rapida
crescita degli utili. Ècome se gli istituti italiani, dopo essere
riusciti a superare bene la crisi finanziaria, facessero fatica ad
adattarsi al nuovo contesto macroeconomico
Quattro fattori sono generalmente additati per spiegare la mediocre
performance delle banche italiane: i) il basso livello dei tassi
d’interesse che comprime il mark-down, cioè la differenza fra il
tasso del mercato interbancario e il tasso d’interesse pagato ai
depositanti, che ovviamente non può scendere sotto lo zero; ii) il
livello ancora alto delle rettifiche a fronte crediti incagliati,
specchio di un contesto macroeconomico in cui le imprese italiane
hanno difficoltà a riconquistare competitività; iii) la scarsa
presenza nelle attività di banca d’investimento, che pur essendo
potenzialmente più rischiose, in questo momento generano forti
ritorni, grazie anche alla struttura dei tassi d’interesse; iv)
la scarsa diversificazione nei mercati emergenti che più crescono:
Asia e America Latina.

LA RETORICA DEL TERRITORIO

Benché siano tutte spiegazioni ragionevoli, da un lato paiono
preoccupanti perché destinate a perdurare a lungo, dall’altra
insufficienti a spiegare un fenomeno che forse ha le sue radici
più profonde nelle strategie perseguite dalle banche italiane
negli ultimi anni.
L’impetuoso e, per molti versi glorioso, processo di
consolidamento del sistema bancario italiano dell’ultimo
decennio, è stato spesso stemperato da una crescente retorica
sulle presunte virtù della banca vicino al cliente e radicata nel
territorio. In altri termini, le grandi banche hanno cercato di
perseguire un modello di natura federale che avrebbe dovuto
contemperare le esigenze di razionalizzazione ed efficientamento
del sistema con i presunti benefici caratteristici delle banche
locali. Questo ha comportato il mantenimento o la costruzione di
una estesa rete di sportelli di ampie dimensioni e pesanti
strutture territoriali, che avrebbero dovuto garantire almeno una
formale autonomia locale.
Tuttavia, l’evoluzione tecnologica e le mutate condizioni
regolamentari e macroeconomiche stanno mettendo a dura prova queste
strategie. Se da un lato è indubbio che il tessuto industriale
italiano, composto di piccole e piccolissime aziende, ha bisogno di
un sistema bancario in grado di dialogare con esse, capirne i
bisogni e quindi essere anche fisicamente vicino a loro, è
altrettanto indubbio che questo deve avvenire attraverso strutture
leggere, dedicate e specializzate, che poco hanno a che fare con
l’attuale rete di filiali. La stragrande maggioranza della
popolazione italiana, il così detto retail, ha invece bisogno di
pochi, semplici e standardizzati prodotti venduti a basso costo:
pagamenti, depositi, carte di credito e debito, Etf, e così via.
(2) Si tratta di prodotti che si caratterizzano sempre più come
commodity e che possono essere venduti in remoto, comodamente,
attraverso un computer, uno smart phone o una macchinetta bancomat,
con mutuo beneficio sia per il cliente sia per la banca. È allora
opportuno che le banche investano di più in tecnologia cercando di
costruire siti web più intuitivi, applicativi per iPhone o iPad e
call center che comunichino attraverso skype in videoconferenza con
i clienti o attraverso comunità virtuali e trasformino le filiali
in piccoli punti vendita poco costosi. Troppo spesso, invece, le
filiali bancarie tradizionali o i così detti gestori hanno avuto
il compito di rifilare al cliente prodotti strutturati o
obbligazioni bancarie, il cui unico scopo era di far incassare
all'istituto laute commissioni o di raccogliere denaro a basso
costo. Oggi tutto questo è diventato più difficile sia perché la
regolamentazione e la vigilanza sono diventate più stringenti, sia
perché il contesto macroeconomico non lo consente.

In fondo, è molto difficile che i nostri figli, che passano ore
davanti a Facebook, entrino volentieri in una filiale tradizionale.
Se le banche non vogliono fare la fine della Kodac, produttrice di
bellissime pellicole fotografiche che nessuno più vuole, è
indispensabile che comincino a ragionare in termini digitali,
offrendo ai loro clienti prodotti semplici e di qualità a basso
costo. Èallora possibile che un lungo periodo di bassi interessi e
bassi margini possa offrire lo stimolo giusto per un opportuno
cambiamento di strategie.

Ricordiamoci inoltre che in Spagna è in atto una guerra fra le
maggiori banche per accaparrarsi i depositi dei clienti a tassi
sempre più elevati. In Italia, il fenomeno si sta manifestando in
modo molto più blando solo perché un’assurda normativa fiscale
penalizza con un’aliquota del 27 per cento i depositi bancari
(che pure sono strumenti con un minor contenuto di rischio di
credito, data l’assicurazione esistente, e privi di rischio di
mercato, poiché rimborsabili a vista) rispetto agli altri
strumenti di raccolta, quali le obbligazioni bancarie più o meno
strutturate, che hanno una aliquota fiscale del 12,50 per cento.

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