La normazione del sistema televisivo, all’interno della galassia delle comunicazioni, non è certo il più importante nodo da sciogliere dell’Italia post-berlusconiana, ma nemmeno il più trascurabile. Il buon senso vuole che la scadenza della convenzione Rai-Stato sia il punto di caduta di tutte le discussioni sul rinnovo del contratto di servizio Rai e faccia anche un po’ di pulizia delle varie sovrapposizioni fra i due documenti, concepiti in ere geologiche diverse. È desolante ascoltare i politici più sprovveduti – e sono parecchi – ragionare come se esistessero ancora animali mitologici come il “duopolio Rai-Mediaset”, il “primato della televisione generalista”, la “qualità televisiva” da certificare con appositi bollini, e via via riciclando.
La tv generalista non è più il centro del sistema delle comunicazioni. Non ne ha i numeri, perché le risorse del sistema sono divise quasi alla pari fra tre soggetti, e il terzo è Sky. Non ha gli ascolti, perché persino Auditel (sistema nato in funzione del duopolio e cresciuto con esso) certifica un declino numerico e la defezione delle generazioni più giovani. Non ha la credibilità e l’autorevolezza che si dislocano altrove, transitano dai media social, passano dagli Ott e dalle televisioni innovative. Se abbia ancora senso il servizio pubblico, e di che cosa debba comporsi, è questione molto delicata. È nato nell’era della scarsità, oggi c’è l’abbondanza. È nato con l’analfabetismo primario, oggi c’è l’analfabetismo da information overload. Detto molto grossolanamente, se c’è analfabetismo primario serve la scuola elementare, se c’è information overload serve l’università. È dubbio che la Rai costituisca questa università. E torna sempre in mente Angelo Guglielmi, ormai mitico ex direttore di Rai Tre, pensionato da Letizia Moratti come un cameriere indisciplinato: “la qualità televisiva è la televisione fatta bene”, non la tv che parla di temi culturali.
Il canone è palesemente una tassa anacronistica, analogica, difficile da tradurre nell’ubiquità dei segnali digitali, ma nessuno vuole privarsi di un gettito certo e quindi i giuristi si inventeranno qualche discutibile motivazione che permetterà di durare ancora qualche anno. Questo “tesoretto” continuerà ad andare tutto alla Rai? È certo che, privata da un giorno all’altro della numerosità e della legittimazione istituzionale del canone, la Rai farebbe la fine dell’Alitalia. Sta facendo il possibile per meritarselo, il canone? Su questo nutro vari dubbi. Non mancheranno le proposte di rottamare la Rai, ma anche il servizio pubblico è un “tesoretto” di cui il paese non dovrebbe privarsi; magari destinando un po’ di risorse a giovani talenti, sperimentazione culturale, cinema e video innovativi e indipendenti.