Sentenza Google, un coro mondiale di “no”

Dura replica dell’ambasciatore americano Thorne, ribellione di Isp e cybernauti. Ma anche il Garante della Privacy non concorda: “La colpa è di chi ha realizzato il video”

Pubblicato il 25 Feb 2010

Internet non è il Far West digitale dove in nome della libertà di
comunicazione non valgono le regole delle altre relazioni umane; le
imprese che fanno business con i filmati del popolo della rete
devono rispettare la legge sulla privacy. E’ su questo principio
che il giudice del Tribunale di Milano Oscar Magi ha condannato a
sei mesi di reclusione tre alti dirigenti di Google accusati di non
aver evitato che nel 2006 finisse su Internet il filmato di un
bambino autistico vessato dai suoi compagni di scuola. La sentenza
solleva però un coro di opposizioni, dagli Stati Uniti, ma anche
dall’Italia

L’Ambasciatore Usa in Italia, David Thorne, ha
fatto immediatamente sapere che “siamo negativamente colpiti
dalla odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti della
Google Inc. per la pubblicazione su Google di un video dai
contenuti offensivi. Pur riconoscendo la natura biasimevole del
materiale, non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità
preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli
Internet service provider. Il principio fondamentale della libertà
di Internet è vitale per le democrazie che riconoscono il valore
della libertà di espressione e viene tutelato da quanti hanno a
cuore tale valore. Il Segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso
21 gennaio ha affermato con chiarezza che Internet libero è un
diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere.
In tutte le nazioni è necessario prestare grande attenzione agli
abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare
una scusa per violare questo diritto fondamentale”.

Anche in Italia diverse voci si sollevano a difendere Big G. “La
sentenza è un forte campanello d’allarme”, commenta
Giorgio Rapari, presidente di Assintel, “perché
si inserisce in un trend in cui la politica e gli apparati
giudiziari cercano di ricondurre la “novità” del Web dentro la
cornice normativa esistente, senza averne compreso la natura. Siamo
di fronte ad uno storico ed irreversibile cambiamento di paradigma,
umano e sociale prima ancora che tecnologico, per il quale dobbiamo
elaborare un nuovo approccio di inclusione, e non di
limitazione”.

“Censura e controllo non servono, la ricetta è solo la
prevenzione”, secondo il direttore del Cnr, Domenico
Laforenza
, intervistato da Repubblica. “Non voglio
pensare che una società come Google, con una proiezione globale e
una reputazione planetaria da difendere, abbia lucrato su quel
video”, dice Laforenza, pur stigmatizzando il ritardo di due mesi
con cui l’azienda è intervenuta. “Di sicuro questa sentenza
farà giurisprudenza, cambierà molte cose nel mondo della rete. Ma
un controllo ex ante sui filmati messi su web è tecnicamente
impossibile. Uno ex post è complicato per la quantità di filmati
immessi in rete in ogni minuto, ma possibile. Dovrebbero compierlo
gli stessi provider. Il problema esiste e la prima soluzione è
l’opera capillare di prevenzione con campagne educative”.

L’accusa non è rivolta a Internet ma a chi sbaglia, chiarisce il
Garante della Privacy Francesco Pizzetti, sentito
dal Corriere della Sera: “Non dobbiamo certo regolare Internet,
ma tutti i comportamenti su Internet. Certo, trovare un punto di
equilibrio è esercizio lungo e faticoso. La libertà è un bene
prezioso ma non possiamo consentire che impunemente, senza
controlli, si possano verificare situazioni come quella vissuta da
quel ragazzo autistico”, che “ha rappresentato ben più che una
semplice violazione della normativa sui dati personali”. Ma
“stabilire la catena delle responsabilità non è
semplice”.

Più accesa la ribellione dei provider, ma anche dei blogger e di
tanti cybernauti, secondo cui la sentenza milanese è sbagliata,
viola la libertà e mette il bavaglio alla Rete. “Questa sentenza
sconvolge il quadro normativo vigente, viola l’articolo 21 della
Costituzione sulla libertà di stampa e stabilisce che d’ora in
avanti saranno i fornitori di accessi o servizi sul Web a doversi
sostituire alla magistratura. Assurdo”, dichiara su Repubblica
Paoli Nuti, presidente dell’Associazione
italiana Internet provider (Aiip). Come dire: non vogliamo
diventare sceriffi digitali. La protesta rimbalza dall’Italia
all’America: discordanti le voci dei lettori del New York Times,
ma la maggior parte “spara a zero sull’Italia”, mentre
Leslie Harris, presidente del Center for democracy
and technology, denuncia i rischi per la libertà su Internet dalle
pagine dell’Huffington Post e se la prende anche col premier
Berlusconi, che possiede il più grande network televisivo privato:
“Una sentenza simile evoca lo spettro del protezionismo
commerciale nel migliore dei casi e della censura da parte della
burocrazia nel peggiore”.

In Italia l’analisi la fa Andrea Monti, avvocato
e presidente della Electronic frontiers Italy (Alcei): “La
sentenza non tutela i deboli e danneggia l’intero settore del
digitale in Italia. E’ un freno in termini di competitività”:
solo i grossi resteranno sul mercato, potendosi permettere
strutture mastodontiche di prevenzione contro possibili contenuti a
rischio.

La grande domanda che ancora deve trovare risposta, secondo il
Corriere della Sera, è quale sia la responsabilità editoriale di
Google, un colosso che ormai guadagna sei-sette miliardi di dollari
l’anno ma che comincia a “pestare i piedi” a editori e
operatori telecom. “Siamo forse di fronte a un ciclo nuovo di
Internet. Innanzitutto dal punto di vista delle regole di condotta:
una qualche forma di responsabilità andrà trovata, anche se non
ingabbiando un corpo nuovo con armature vecchie. E poi da quello
economico: Google ha creato un mercato dal nulla, ma oggi questa
prateria è diventata troppo grande perché un solo cow-boy possa
dominarla con la logica di uno smisurato Far West”, si legge sul
quotidiano milanese.

Google si difende facendo notare che “ai postini non si chiede
che cosa c’è nelle lettere e che per garantire il controllo di
tutti i contenuti sarebbe necessario far pagare gli utenti per
pubblicare i video e questo peggiorerebbe i contenuti”. “La
società deve bilanciare il grado di protezione della privacy con i
costi che vi sono associati, cioè la riduzione della
disponibilità dei contenuti”, scrive ancora il Corsera. Inoltre,
“una stretta eccessiva della protezione della privacy e una
sottolineatura della responsabilità editoriale dei siti simile a
quella dei giornali provoca un’espulsione dei contenuti prodotti
dagli utenti a favore dei contenuti professionali che possono
sopportare i costi di natura editoriale”. Ma la varietà e
ricchezza dei contenuti generati dagli utenti, anche se non sempre
di qualità, “è un bene prezioso per la società che va
salvaguardato”.

Concorda Antonio Pilati, commissario Antitrust:
“A Google devono essere attribuite delle responsabilità ma non
quelle tradizionali dell’editore. Google fa un altro mestiere:
non confeziona, non impagina, ma fornisce gli strumenti perché
produttore e fruitore di contenuti possano incontrarsi.
Sbaglieremmo se cercassimo di applicare vecchie regole a un
sogggetto nuovo”. Secondo Pilati, nel caso del filmato
incriminato, la colpa è di chi ha realizzato e divulgato il video,
non del motore di ricerca; “a noi fa comodo attribuire la
responsabilità a Google, perché è più semplice. Ma è
improprio”. La soluzione? Una forma di diritto nuovo, con “una
rete di contratti tra i vari soggetti che operano sul campo, per
esempio tra gli editori cartacei o televisivi e Google. Un
approccio negoziale sarebbe più flessibile, aderente alle novità
e positivo per tutti”.

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