Vorrei ricordare che a suo tempo il digitale terrestre era stato
presentato come una grande opportunità per le televisioni locali.
Finalmente esse ricevevano in dote un pacchetto certo di frequenze
ricevibili in alta qualità, moltiplicavano i loro canali di
trasmissione, potevano contemporaneamente essere operatori di rete
e fornitori di contenuti. Questa stabilizzazione dell’emittenza
locale, insieme all’introduzione di servizi televisivi
interattivi (t-government, t-commerce, t-banking ecc.), veniva
rappresentata come una forma di modernizzazione del sistema
comunicativo.
Sappiamo che dei servizi interattivi non è rimasta traccia,
essendo il ricorso alternativo a Internet molto più ricco di
opportunità per l’utente; ma anche il percorso dell’emittenza
privata locale è stato cosparso di spine. In quella metà
abbondante dell’Italia in cui il digitale terrestre è già una
realtà (e il numero di aree e regioni passate alla Dtt cresce
rapidamente), l’ebbrezza per la moltiplicazione delle frequenze
è stata breve. Se esse non rappresentavano più la risorsa scarsa
che per anni aveva angustiato gli editori locali, adesso il
problema era duplice: da un lato riempire di contenuti credibili
tutto quello spazio, dall’altro conquistare l’attenzione dei
telespettatori attirati da un’offerta ormai massiccia, sia in
chiaro che pay, di Mediaset, e da più di dieci canali gratuiti
della Rai (quanto a Dahlia Tv, stendiamo un pietoso velo). La
speranza di accordi informali o syndication (di fatto o di diritto)
con editori di altre regioni per scambiarsi interi flussi di
programmazione sui molti canali liberi è stata frustrata in sede
normativa e regolamentare, e quindi spesso il telespettatore non ha
potuto che vedere patetici cartelli del tipo “coming soon” o
monoscopi vari. I più intelligenti avevano già capito che questa
selva di cartelli era la premessa perché quei canali, palesemente
inutilizzati, potessero essere tolti agli editori senza che nessuno
potesse gridare alla mortificazione della libertà di pensiero.
E così è stato. Come stupirsi a questo punto che il Milleproroghe
storni dalla tv le frequenze da 790 a 862 MHz per destinarle alla
banda larga mobile, con una gara con il governo punta a incassare 2
miliardi e 400 milioni di cui ha un estremo bisogno? Era
prevedibile che queste frequenze saranno legalmente tolte alle
emittenti più piccole, perché la norma – nel testo licenziato dal
Cdm – prevede la formazione di graduatorie per ogni regione sulla
base di quattro parametri. Adesso sarà battaglia per la
conversione del decreto; ma al di là di questo non c’è dubbio
che assistiamo a una ristrutturazione del sistema tv attorno a due
colossi con tv a pagamento, Sky e Mediaset, e a una Rai che va
forte nella programmazione in chiaro ma è vulnerabile sul piano
dei ricavi. Fuori di questo triangolo c’è un po’ di posto per
La 7 e un terreno ridotto per le locali, se non riescono ad
esprimere una genuina dimensione locale in senso informativo e
culturale.