SENTIERI DEL VIDEO. Giornalismo, vedi alla voce “clava”

Aumentano gli iscritti all’ordine: ma i punti di riferimento stanno sparendo

Pubblicato il 14 Nov 2011

La televisione ha profondamente rimescolato le carte del
giornalismo; e Internet ha completato l’opera. Precedentemente,
“giornalismo” significava scrivere professionalmente sui
giornali e le riviste, con alcuni annessi e connessi (gli uffici
stampa, le agenzie).

Ma in televisione, quale sostanziale differenza c’è tra lavorare
nella redazione di una trasmissione di infotainment, o una rubrica,
o nell’approfondimento di un telegiornale? Il lavoro è sempre
quello, una grossa agenda piena di numeri di telefono (ora, un
laptop o tablet), le agenzie di stampa (ora Internet, compreso
Google, Wikipedia, Facebook…), tante riunioni, scrittura testi,
casting per gli ospiti, realizzazione video ecc. E fare un sito, un
blog, una campagna sui social network, è così diverso da gestire
un giornale, o un ufficio stampa, o piuttosto ne costituisce una
prosecuzione?

La definizione di giornalismo viene usata come una clava. Dai
censori, per cercare di controllare Internet. Dagli editori, per
cercare di evitare rapporti di lavoro fortemente sindacalizzati e
onerosi. Dai lavoratori in senso opposto per migliorare stipendi,
condizioni di lavoro, previdenza. Punti di riferimento precisi
però non ci sono più. Autori testi (a tariffa Siae), programmisti
registi, Co.Co.Co, precari pagati a prestazione o a articolo sono
tutti “operatori dell’informazione e della comunicazione”;
difficile adattare ad essi le categorie del giornalismo
novecentesco, più che ci si allontana dalla (sola) carta stampata.
E la deontologia del giornalista, il principale valore di tutto
questo, si perde: insieme alla notizia.
Di “progressiva frammentazione della professione” parla la
ricerca 2011 su “Giornalismo. Il lato emerso della professione”
realizzata da Lsdi, un gruppo attivo di giornalisti
(http://www.lsdi.it).
Aumentano continuamente gli iscritti all’Ordine, ma ci sono
almeno 50.000 giornalisti “sommersi’’, che non hanno alcuna
posizione all’ Inpgi e non si sa se e in quale modo siano
“attivi”. Solo il 26% del lavoro giornalistico autonomo (25mila
persone) ha un fatturato lordo annuo superiore ai 10.000 euro. Il
62% dichiara meno di 5.000 euro l’anno. Al contrario fra i
giornalisti dipendenti a tempo indeterminato il 66% guadagna oltre
30.000 euro lordi; ma il turnover delle redazioni è fermo al
palo.

Non si tratta solo di difficoltà previdenziali; è la definizione
stessa di giornalismo che – con tutte le buone intenzioni – non
riesce a coprire il complesso delle attività professionali (dei
task) che la multimedialità e Internet richiedono, con una buona
dose di brutalità, ad una massa di neolaureati disposti a fare
qualunque mestiere intellettuale e comunicativo ma spesso privi
degli aggiornamenti necessari. Un problema generazionale e sociale
di prima grandezza.

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