Il sistema audiovisivo italiano è al giro di boa. In ripresa dopo la crisi registrata nel 2014 – una ripresa spinta prevalentemente dall’operazione “canone in bolletta” -: ma sottoposto a una mutazione così impetuosa imposta dalla digital transformation da rendere urgenti nuovi cambi di passo. Scongiurando rischi di ingessamento del mercato che potrebbero arrivare da misure “fuori bersaglio”. E mantenendo la barra sulle strategie che dovranno ridefinire perimetro e ruolo di aziende pubbliche come la Rai: “La riforma del canone è il presupposto a un lavoro che deve proseguire – ha detto Antonello Giacomelli, deputato Pd ex sottosegretario alle Comunicazioni -. Serve completare la ridefinizione di servizio pubblico e avviare una riflessone sulle risorse”. E’ in questo ambito che si sono mossi gli interventi dei relatori al convegno dell’Istituto Bruno Leoni “Il sistema audiovisivo, evoluzione e dimensioni economiche” coordinato da Alberto Mingardi, che si è svolto oggi a Roma.
In ripresa il mercato audiovisivo inteso come somma di cinema, tv e home video, che vale nel 2016 10,7 miliardi in crescita del 5,4% rispetto all’anno precedente, sottolinea Emilio Pucci numero uno di E-Media Institute e autore di un saggio sul tema curato insieme all’Istituto Bruno Leoni. “Ma misurare il mercato audiovisivo ricorrendo al perimetro ‘classico’ e poi a quello ‘allargato’ che include la componente video online – avverte Pucci – è però limitato perché non permette di comprendere che proprio il mezzo Internet genera un sistema d’offerta che travalica i formati e le funzioni classiche del mercato editoriale”. Servono nuovi parametri in grado di leggere i nuovi fenomeni di convergenza, in cui contenuti e servizi vengono consumati su schermo o meglio su schermi diversi: “All’interno dello screen content nei fatti è irrilevante distinguere fra quotidiano online e online TV perché l’insieme delle offerte sono riportate all’interno di un unico sistema integrato e espresse in un insieme di formarti multimediali e pienamente audiovisivi”.
In primo piano nell’agenda del convegno il tema del “decreto quote” (il numero 204 del 7 dicembre 2017) che ha fissato obblighi sia per i broadcaster tradizionali che per le piattaforme Over the top di programmazione di opere italiane oltre che di finanziamento. Misura criticata: “A 100 anni dalla sua prima introduzione l’istituto della programmazione obbligatoria non ha mai dimostrato di avere alcun effetto positivo sulla promozione e la crescita dell’induustria”, dice Pucci. Rilanciato da Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata, secondo cui “il margine lasciato dall’Europa agli Stati è stato stressato dall’Italia”. Il rischio è la generazione di criticità che potrebbero porre problemi “di legittimità”. Lo stesso Giacomelli mette in luce i dubbi avanzati sull’impostazione sostanzialmente quantitativa del decreto che rischia di abbassare la qualità del prodotto.
“Gli obblighi di investimento funzionano, non così quelli di programmazione” è il parere di Giancarlo Leone presidente dell’Associazione produttori televisivi secondo cui rimangono margini di correzione di tiro. Focus sulla Rai, nell’intervento di Leone che punta il dito sulle risorse della Tv pubblica e sullo “sbilanciamento” di regole del gioco tra player del sistema Tv tradizionale e Over the top. Secondo Antonio Pilati ex commissario Agcom e componente Antitrust, serve ripensare la distribuzione di “risorse Rai a favore dell’attività di produzione nazionale” così da riequilibrare i pesi di un’azienda che conta 13mila dipendenti e un sistema sovradimensionato di appalti.