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Sky, Corte giustizia Ue: ok a meno spot sulla payment Tv

Stabilita la “conformità al diritto europeo” della direttiva italiana che prevede un tetto più severo alla pubblicità per le emittenti a pagamento. La replica di Sky: partita ancora aperta

Pubblicato il 18 Lug 2013

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La Corte europea di giustizia ha definito “conforme al diritto europeo” il decreto Romani sui tetti alla pubblicità in televisione che stabilisce limiti sugli spot più rigidi per le Tv a pagamento come Sky, rispetto a quelli previsti per le Tv private in chiaro, come Mediaset.

In un caso sollevato da Sky Italia, la Corte di Giustizia europea ha stabilito che “il legislatore nazionale può fissare limiti ai tempi di diffusione della pubblicità, che differiscono in funzione del fatto che una Tv sia a pagamento o sia in chiaro,” secondo quanto si legge in una nota stampa.

A commento, Sky annuncia: la partita è ancora aperta. “Spetterà al giudice nazionale – scrive l’emittente in una nota – decidere se è legittimo il tetto pubblicitario più rigido imposto alla sola pay-TV e Sky confida che il Tar del Lazio possa accogliere le sue ragioni. La corte di Giustizia Europea, infatti, pur avendo affermato che la differenziazione fra tetti applicabili alla pay-TV e alla TV gratuita non sia di per sé illegittima, sottolinea che spetterà al giudice nazionale decidere se questa costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi. Quindi sarà il Tar del Lazio a stabilire se il tetto più severo imposto alla pay-TV sia effettivamente indirizzato alla protezione dei consumatori e proporzionato rispetto a questo obiettivo”.

La direttiva italiana prevede un limite del 20% per spot di televendita e pubblicità televisiva (per ora d’orologio), ma lascia agli Stati membri la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose.

In particolare, la legislazione italiana prevede che la trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo non può eccedere il 4% dell’orario settimanale di programmazione ed il 12% di ogni ora. La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte delle altre emittenti televisive in chiaro non può eccedere il 15% dell’orario giornaliero di programmazione ed il 18% di ogni ora, mentre per le emittenti televisive a pagamento, non poteva eccedere, per l’anno 2011, il 14% di ogni ora (in questi due casi, ogni eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2% nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva).

Dopo che Agcom aveva comminato a Sky una multa per “sforamento”, l’emittente aveva chiesto al Tar del Lazio l’annullamento della decisione. Fu chiesto alla Corte di giustizia se la direttiva «sui servizi di media audiovisivi» nonché il principio della parità di trattamento e le libertà fondamentali garantite dal Trattato Fue ostino ad una normativa nazionale che prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti televisive in chiaro.

Nella sua odierna sentenza, la Corte ricorda anzitutto che la direttiva non procede ad un’armonizzazione completa dei settori da essa disciplinati, ma stabilisce prescrizioni minime.

Gli Stati membri conservano pertanto la facoltà di prevedere norme più particolareggiate o più rigorose e, in alcuni casi, condizioni differenti, purché siano conformi al diritto dell’Unione. In tal senso, la direttiva, pur prevedendo che la percentuale di spot televisivi pubblicitari e di spot di televendita non debba superare il 20%, non esclude che gli Stati membri impongano limiti diversi al di sotto di tale soglia. Le norme nazionali devono tuttavia rispettare il principio di parità di trattamento.

La Corte precisa poi che i principi e gli obiettivi delle norme relative all’affollamento pubblicitario televisivo mirano ad instaurare una tutela equilibrata, da un lato, degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti e, dall’altro, degli interessi degli autori e dei realizzatori, nonché dei consumatori, rappresentati dai telespettatori.

Detto equilibrio varia a seconda che le emittenti televisive siano a pagamento o in chiaro.

Gli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento, che ricavano introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, sono infatti diversi da quelli delle emittenti televisive in chiaro, che non beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi, tra l’altro, con le entrate della pubblicità. Una simile differenza è, in linea di massima, tale da porre le emittenti televisive a pagamento in una situazione oggettivamente diversa.

Secondo la Corte Ue anche la situazione dei telespettatori è diversa a seconda che siano abbonati ad un’emittente televisiva a pagamento (alla quale versano un corrispettivo per la fruizione dei programmi) o usufruiscano dei servizi di un’emittente televisiva in chiaro.

Ne consegue che, nel ricercare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli interessi dei telespettatori, il legislatore nazionale può stabilire limiti diversi all’affollamento pubblicitario orario a seconda che si tratti di emittenti televisive a pagamento o in chiaro.

La Corte segnala però che la normativa italiana potrebbe costituire una restrizione alla libera prestazione dei servizi.

A tale riguardo, la Corte dichiara che la tutela dei consumatori contro gli eccessi della pubblicità commerciale costituisce tuttavia un motivo imperativo d’interesse generale che può giustificare restrizioni alla libera prestazione dei servizi, posto che tale restrizione sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non ecceda quanto necessario al suo raggiungimento. Spetta al giudice del rinvio verificare se tali condizioni siano soddisfatte.

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