Spotify, il gigante mondiale della musica in streaming, capace di doppiare i numeri di Apple music e di assicurarsi la leadership del mercato, è stata fondata in Svezia ed è controllata da una holding che ha sede in Lussemburgo. Ma quando si è trattato di quotarla in Borsa, nulla è stato fatto perché questo avvenisse in Europa, e la società è sbarcata a Wall Street. E se questa circostanza è passata sotto silenzio nelle ore immediatamente successive alla quotazione, ad aprire il dibattito è Karel Lannoo, ceo del Centre for european policy studies di Bruxelles, autorevole think tank focalizzato sulle dinamiche economiche del vecchio continente.
In un post sul sito del Ceps Lannoo sottolinea che “L’Ipo di Spotify avrebbe costituito un grande valore aggiunto per i mercati europei dei capitali e per i suoi titoli a crescita elevata. Avrebbe dimostrato che l’Europa può anche essere terra fertile per le aziende ad elevata tecnologia e ad alta performance. E’ un peccato che Spotify, un’impresa europea, si sia quotata negli Usa. Non è stato fatto nessuno sforzo per mantenere a società in Europa”.
Il fatto che Spotify abbia scelto Wall Street è, secondo lo studioso, una “decisione strategica che mette in evidenza il fatto che l’Europa abbia la capacità di creare compagnie hi-tech innovative”. “Tuttavia – sottolinea – una volta che queste hanno bisogno di capitali, l’Ue scompare dalla mappa”. Ma che lezione possono trarre i decisori di Bruxelles da questa vicenda? La prima è la necessità, secondo Lannoo (nella foto), di procedere “con urgenza” a “iniziative ad ampio raggio se l’Europa vuole davvero un’effettiva unione dei mercati dei capitali, per costituire un’alternativa attraente al finanziamento bancario per canalizzare risorse verso le aziende”.
A frenare un eventuale sbarco sui mercati europei invece che su quello Usa hanno contribuito secondo lo studioso le complicazioni del sistema burocratico europeo: “Uno sguardo più attento alle regole di quotazione nell’Ue rivela che fanno parte del problema”, afferma, lamentando il fatto che si tratti di norme datate e ancora incomplete, basate su un testo del 1989 emendato tre volte fino al 2017, ma non ancora adeguato per consentire “una singola Ipo paneuropea“. In più, secondo l’analisi del Ceo del Ceps, in Europa non esiste un’autorità unica paragonabile alla Sec statunitense, così “un’offerta dev’essere autorizzata nel Paese della società, che nel caso di Spotify sarebbero il Lussemburgo o la Svezia, e successivamente notificata a 27 o più autorità. Con il prospetto informativo che “deve essere tradotto in tutte le lingue dell’Ue e rispettare le regole a protezione degli investitori”. E’ vero che negli ultimi tempi sono state avanzate proposte per estendere in questa direzione le competenze della European Securities Market Authority (Esma), ma anche queste “non consentirebbero a offerte come quella di Spotify o di altri marchi globali di essere qualificate per un’unica autorizzazione paneuropea”. In più, conclude Lannoo, l’uscita del Regno unito dall’Ue “rende questa brutta situazione ancora più allarmante”, visto che proprio la piazza londinese conta sul numero più sostanzioso delle Ipo “made in Europe”. Questo provocherebbe per l’Europa, secondo Lannoo una ulteriore riduzione della massa critica e dell’attrattività dei mercati dei capitali europei.
Intanto nelle prime ore dopo la quotazione si sarebbe registrata, secondo una fonte confidenziale pubblicata da Bloomberg, una vendita di azioni inferiore alle previsioni degli advisor, dinamica che avrebbe portato all’innalzamento del prezzo: soltanto 5,6 milioni di azioni sarebbero state scambiate all’apertura delle contrattazioni, pari al 5% di quelle potenzialmente disponibili.