Sui marchi contraffatti Google ha vinto davvero?

Giornata convulsa per Google. Dalla Corte di giustizia Ue sentenza favorevole solo a metà nella guerra sui marchi contraffatti. Si consuma lo strappo con Pechino: per accedere ai siti “proibiti” gli utenti cinesi dovranno passare dalla pagina di Hong Kong

Pubblicato il 23 Mar 2010

Altra giornata "memorabile" oggi sul calendario di
Google. Che sul fronte europeo riscuote un verdetto solo
apparentemente a proprio favore nella causa che ha visto coinvolto
il servizio AdSense. E sul fronte orientale taglia i ponti con la
Cina dirottando gli utenti su Google Hong Kong.

Andiamo con ordine. Il motore di ricerca vince il primo round nella
guerra dei brand contro Louis Vuitton, ma perde sul lungo termine.
L’azienda californiana, ha stabilito oggi la Corte Ue, non ha
violato il diritto sui marchi perché “se un marchio è stato
utilizzato come parola chiave – dice la Corte -, il suo titolare
non può far valere nei confronti di Google il diritto esclusivo
che egli trae dal suo marchio”.

Ma la sentenza mette anche paletti con i quali Google dovrà fare i
conti da qui in avanti. Ai possessori di marchio la sentenza di
oggi dà infatti la possibilità di fare causa rivolgendosi ai
giudici del proprio Stato. La Corte ha infatti decretato che spetta
al giudice nazionale accertare, "caso per caso, se i fatti
della controversia sottopostagli siano caratterizzati da tale
violazione o dal rischio della violazione".

Inoltre per la prima viene volta chiamata in causa la
“responsabilità” del motore di ricerca o l’eventuale
neutralità (si parla di "passività") della tecnologia
adottata: la Corte osserva infatti che "spetta al giudice del
rinvio esaminare se il ruolo svolto dal prestatore (Google, ndr)
sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico,
automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di
controllo dei dati che esso memorizza". Perché se, prosegue
la nota, "egli non ha svolto un ruolo attivo, tale prestatore
non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha
memorizzato su richiesta di un inserzionista”. Ma il
"prestatore" è invece ritenuto responsabile se
“essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o
di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di
prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l'accesso agli
stessi".

Sia Google sia il gruppo Lymh (che controlla il marchio Vuitton)
plaudono alla sentenza. Per Lymh viene stabilito "che non si
può fare pubblicita' online usando come parola chiave un
marchio registrato senza il consenso di chi ne detiene il
diritto". Mentre Google commenta la sentenza sostenendo che
"il diritto dell'utente ad avere un'ampia scelta nei
risultati delle sue ricerche è superiore al diritto dei marchi di
proteggere il proprio nome".

Intanto Google consuma lo strappo con la Cina. Da oggi gli
internauti cinesi vengono reindirizzati sul sito della compagnia
che ha sede a Hong Kong. Poco dopo l'annuncio dell'azienda
Usa, un funzionario governativo citato dall'agenzia Nuova Cina
ha accusato Google di non aver “rispettato la parola data” al
momento del suo ingresso nel Paese, nel 2006. Col passare delle
ore, Pechino smorza i toni di una polemica esplosa mentre Cina e
Stati Uniti sono ai ferri corti su una vasta gamma di temi che
vanno dal commercio al Tibet, alle relazioni con Taiwan.

Un portavoce del ministero degli Esteri, Qin Gang, ha sostenuto in
una conferenza stampa che 'l'incidente di Google e' un
atto isolato di una compagnia commerciale, non vedo come possa
avere alcun impatto sulle relazioni con gli Usa, a meno che
qualcuno non lo voglia politicizzare'. Quando Google ha
annunciato la decisione di chiudere il sito Google.cn in Cina era
notte fonda. Da quel momento in poi, gli internauti che si
collegano al sito vengono automaticamente diretti su Google.com.hk,
situato nella ex-colonia britannica. Ma per il momento è ancora
impossibile l’accesso ai siti “proibiti” Google utilizzando
Google.com.hk. Per chi usa Internet in Cina l'unica strada per
accedere ai siti vietati – che comprendono i social network
YouTube, Facebook e Twitter – e' quella di utilizzare proxy
server con indirizzi stranieri, che la 'Grande Muraglia'
riesce a volte a disturbare ma non a bloccare.

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