Più sostegno all’audiovisivo italiano con il decreto Franceschini (ancora all’esame delle Camere): per emittenti e piattaforme l’obbligo di distribuire un maggior numero di film e serie Tv “made in Italy”. E soprattutto di investire più risorse nella loro produzione. In teoria ce n’è anche per Netflix, Amazon Prime & Co. Ma è davvero così?
Sì, no, forse: se finora il decreto ha incassato soprattutto critiche da parte dei broadcaster, sul fronte delle piattaforme di video on demand la questione rischia di essere controversa. I fornitori di servizi di media audiovisivi on demand avranno l’obbligo, secondo la proposta Franceschini, di investire in opere italiane di produttori indipendenti realizzate negli ultimi cinque anni in misura di almeno il 10% degli introiti netti annui realizzati in Italia (un altro 10% dovrà invece essere destinato a opere europee con le stesse caratteristiche).
Ma è davvero possibile imporre ad aziende straniere un investimento del genere? Non è scontato.
Di sicuro, qualsiasi misura vada in porto, per le piattaforme di streaming non sarà una bella notizia: “Riteniamo – fa sapere Netflix a Corcom – che i tipi di obblighi proposti dal governo si dimostrino controproducenti nella crescita del settore cinematografico e televisivo europeo. Limitano la concorrenza e rendono più difficile per le emittenti televisive raggiungere pubblico in tutta Europa”. Un vero peccato, fa capire la piattaforma, perché “la programmazione europea ci piace e compriamo / (co) produciamo molto. Negli ultimi cinque anni abbiamo speso oltre 2 miliardi di dollari nelle produzioni europee, un investimento sempre crescente che rappresenta più di 100 progetti europei in varie fasi di sviluppo. Abbiamo investito e continueremo a investire in storie e narratori italiani e portarli ad un pubblico globale”.
In realtà non si tratta della prima volta in cui uno Stato europeo chiede alle piattaforme digitali un sostegno all’audiovisivo nazionale.
La Germania ha fatto da apripista: l’articolo 66 della Filmförderungsgesetz, la legge sui sussidi federali all’industria cinematografica tedesca, prevede una “levy” che impone ai provider di servizi Vod stabiliti all’estero di concorrere, con una quota del proprio fatturato realizzato in Germania, al finanziamento di un fondo a sostegno delle opere audiovisive. Si tratta dunque di un obbligo di investimento “indiretto” ottenuto attraverso una misura parafiscale compatibile con il diritto comunitario: la Commissione europea, superati gli iniziali dubbi, nel settembre 2016 ha confermato la legittimità della norma tedesca (un modello simile adottato dalla Francia si trova ancora sotto la lente dell’Europa).
Diverso sarebbe però l’obbligo previsto dal decreto Franceschini per Netflix & Co.: se fosse fiscale (o para-fiscale) si salverebbe, come è accaduto in Germania. Il problema è invece che viene costruito come una quota di investimento, ai sensi della direttiva europea sui servizi media audiovisivi, che, applicandosi a aziende con sede al di fuori del territorio nazionale, rischia di non essere compatibile con il diritto comunitario.
Sulla misura pende quindi un grosso punto interrogativo.
Ma c’è una scappatoia, e risiede nelle date fissate dal decreto: la svolta prevista dal decreto è infatti prevista, per le piattaforme on demand, a partire dal 2019. Quando cioè sarà ormai decollata la normativa “superiore”, nel campo degli video, l’atteso maxi-aggiornamento della direttiva media audiovisivo la cui attuazione è prevista per il primo trimestre del 2018. Ebbene la nuova direttiva prevederà per gli Stati la possibilità di imporre contributi finanziari – sia diretti che indiretti – anche alle aziende con sede in un altro Stato membro, ma la cui offerta sia destinata al pubblico nazionale. Il decreto Franceschini dunque si configura come un “rodaggio” alla messa in campo dell’articolo 13 della Audiovisual Media Services Directive ancora in corso di approvazione.