EDITORIA

Fake news, servono giornalisti o “attivisti” nell’era dei social media?

Nuovi formati e nuove modalità narrative. Ma non solo. Al centro del 360/OS Open Source Summit organizzato dall’Atlantic Council, le strade per sfruttare la Rete, verificare e nel caso ribaltare la “versione ufficiale dei fatti”. Obiettivo aprire una breccia nella quarta parete del mondo dell’informazione e coinvolgere un pubblico sempre più soggiogato dal sensazionalismo

Pubblicato il 10 Lug 2017

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Nella lotta alle fake news non basta verificare le fonti e replicare alle notizie inaccurate o fraudolentemente inventate con prove inoppugnabili. Bisogna anche – e soprattutto – abbattere la quarta parete, instaurare un dialogo con il pubblico, costruire storie con tecniche narrative altrettanto efficaci e suggestive, modulandone i registri in base ai canali. È a questo che sono chiamati oggi i giornalisti. In Europa occidentale la questione è tutto sommato ancora presa sottogamba, visto che il fenomeno spesso assume per gli utenti della Rete i contorni del complottismo, del folklore o del gossip, a seconda dell’ambito tematico. Ma nei Paesi dell’ex blocco sovietico la questione può essere anche di vita, di morte o di libertà, e la lotta alle fake news rappresenta il fulcro delle attività di colleghi che sono diventati loro malgrado veri e propri attivisti. Professionisti dell’indagine che sfruttano a piene mani le risorse di Internet e dei Social media per validare le differenti versioni dei fatti e per identificare tracce, recuperare prove, stimolare confronti e collaborazioni che aiutino a identificare una verità il più oggettiva possibile.

Il digitale che smentisce la “versione ufficiale”

CorCom ha incontrato e ascoltato alcuni di questi giornalisti investigativi 2.0 in occasione del primo 360/OS Open Source Summit, un evento organizzato dall’Atlantic Council a margine del Global Forum che si è tenuto la scorsa settimana a Varsavia. Una convention unica nel suo genere, dove insieme ai rappresentanti della stampa investigativa tradizionale, si è ritrovata una comunità che ha rinsaldato sul piano personale una fitta trama di relazioni maturate online attraverso le sempre più numerose iniziative – puramente editoriali e non – sviluppatesi in nome dell’indagine Open Source: Bellingcat, Coda Story, Anti-Corruption Foundation, OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project), Center for European Policy Analysis (CEPA) e RFE/RL (Radio Free Europe/Radio Liberty, supportata dagli Stati Uniti e fino al 1971 finanziata dalla CIA), solo per citarne alcune. Agenzie che vivisezionano video, annunci, post e tweet sospetti, ma anche comunicati stampa battuti da enti governativi e ambasciate.

È incredibile vedere quante informazioni sono disponibili gratuitamente nel Web: la memoria di Internet è diventato il motore del fact checking, e con un po’ di pazienza è possibile unire i puntini e ripercorrere, per esempio, tutte le tappe che la notte tra il 15 e il 16 luglio 2016 hanno portato al fallimento del colpo di stato in Turchia. Una ricostruzione a cura di Christiaan Triebert, di Bellingcat, che, partendo dai leak delle conversazioni Whatsapp degli ufficiali cospiratori, in soli otto giorni d’indagine a cavallo di Twitter, Google Maps e pagine Facebook – pubbliche! – dedicate alle brigate dell’esercito turco, ha surclassato il lavoro degli analisti di professione. Ma usando le mappe digitali si può anche risalire agli effetti dei raid russi ad Aleppo e contro le installazioni di Al Baghdadi ai confini con lo Stato islamico, scoprendo che in più di un’occasione gli obiettivi colpiti erano strutture civili. A volte persino ospedali e moschee, come segnalato dalle organizzazioni umanitarie in loco (tendenzialmente smentite dalla versione ufficiale dei fatti).

Al centro di molti degli interventi e delle case history condivise c’era inevitabilmente il ruolo che la Russia sta giocando online rispetto alla gestione politica interna e ad alcune delle più delicate situazioni internazionali, dalla guerra civile in Siria, per l’appunto, all’assestamento dello scenario ucraino, fino alla presunta ingerenza nelle campagne elettorali dei Paesi occidentali, a partire da Stati Uniti e Francia.

“Ormai bisogna essere attenti con le definizioni. Non parliamo più di semplici contenuti mediali, né di informazione, ma di tentavi di orientare l’agenda politica”, ha detto per esempio Svitlana Zalishchuk, membro del parlamento ucraino. “Le elezioni non sono più un processo nazionale, sono sistematicamente frutto di ingerenze e influenze di stati terzi. E sul piano degli scontri internazionali, non esagero se dico che così il ventesimo secolo è stato marchiato dalle sigle WW1 e WW2 (World War 1 e 2, i due conflitti mondiali, ndr), il ventunesimo secolo verrà ricordato per i conflitti sul WWW (World Wide Web, ndr)”. Zalishchuk ha poi fatto appello alla creazione di un framework europeo che possa giudicare e punire queste violazioni sul piano legale. “Oggi i riflettori sono puntati su Putin. Ma che succederebbe se domani entrassero in gioco la Cina o peggio l’Isis?”

La nuova missione del giornalismo a cavallo di innovazione e story telling

Non basta però dire la verità per affermarla. Né tanto meno per conquistare i lettori, che anzi sono spesso refrattari alle spiegazioni e a una versione dei fatti di solito meno sensazionale di quella prospettata dalle fake news. Bisogna puntare ai nuovi strumenti digitali, allo story telling e a formati che risultino più forti e più ingaggianti – possibilmente interattivi – rispetto a quanto offerto dai sabotatori dell’obiettività. “Il giornalismo indipendente deve continuare a innovare, e non puntare sul sensazionalismo”, ha confermato Anne Applebaum, editorialista del Washington Post. E c’è già chi lo sta facendo, come le già citate Coda Story e OCCRP, che sulla base delle indagini open source condotte realizzano veri e propri documentari su fatti di cronaca mai chiariti dalle autorità competenti. Ma c’è pure chi punta sulla realtà virtuale, come il fotografo Joseph Sywenkyj, che ha realizzato un documentario a 360 gradi dedicato ai reduci della guerra civile in Ucraina. “L’obiettivo è conquistare il pubblico, anche per liberarsi da altre fonti di finanziamento. Persino dalla pubblicità, se necessario: in Polonia, per esempio, il governo incita le aziende a non investire sui giornali indipendenti”, ha continuato Applebaum.

Si tratta di un modello sostenibile?

Stando all’esperienza diretta di Artem Torchinskiy, fondatore della Anti-Corruption Foundation, che come suggerisce il nome denuncia in Russia i fenomeni di corruzione e collusione (ha fatto scalpore l’indagine condotta sui finanziamenti gonfiati dei Giochi di Sochi, le Olimpiadi invernali più costose della storia), la risposta è sì. “Nel nostro Paese c’è un clima decisamente poco favorevole al giornalismo investigativo e parecchi dei miei amici che fanno il mio stesso lavoro ora sono in galera. L’Anti-Corruption Foundation è supportata solo dai suoi lettori e dall’azione di alcuni volontari. Abbiamo un team che mette insieme una ventina di persone, e riusciamo a sopravvivere con circa un milione di dollari all’anno. D’altra parte il feedback rispetto a ciò che proponiamo è immediato e chiaro: se facciamo buone indagini, otteniamo ottime donazioni”. Quella di Torchinskiy è più di una professione, è una missione: “La verità è che la gente in Russia non sa cosa davvero cosa accade fuori e dentro i confini nazionali. Noi siamo convinti che tutto questo possa cambiare. Siamo convinti che possiamo diventare una democrazia normale”.

Nonostante le molte denunce, nette e senza giri di parole, l’evento è stato tutto fuorché un messaggio di ostracismo rivolto alla Russia. Daniel Fried, ex ambasciatore americano in Polonia, dice senza mezzi termini. “È già successo nel corso della storia: quando la Russia fallisce un tentativo di aggressione, come quello in corso nel cyber-spazio, comincia per il Paese un processo di riforma interna. Ed è questo ciò a cui puntiamo. Vogliamo una relazione migliore con una Russia migliore” .

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