“La competizione con gli operatori globali, gli Ottv? Certo, siamo in corsa per lo stesso premio, l’attenzione degli spettatori, e le risorse da pubblicità e abbonamenti. Ma è una guerra ad armi impari. Perché il nostro business è totalmente regolamentato, il loro no”. Parla Gina Nieri, direttore degli affari istituzionali e membro del comitato esecutivo di Mediaset. Azienda oggi al centro del ciclone con Vivendi, non solo: ma anche alle prese con una concorrenza agguerrita – “come tutti i media tradizionali” sottolinea Nieri – da parte degli Over the top. E alla vigilia di una serie di grandi manovre sulle frequenze che la vedrà ridisegnare la propria struttura trasmissiva su nuove basi. Accanita sostenitrice dei diritti dell’azienda ai tavoli di Bruxelles e italiani in occasione dei passaggi più delicati per il mondo dei broadcaster, Nieri, europeista convinta, non risparmia critiche ai decisori europei.
Pressione competitiva, si diceva: è la forza di Google, Facebook che vi spaventa?
Non siamo spaventati, non accettiamo la concorrenza sregolata. Noi sappiamo fare molto bene il nostro mestiere: la Tv in generale, e la nostra in particolare, è riuscita a mantenersi competitiva anche grazie al digitale terrestre. Una controffensiva declinata in tutti i modi possibili: abbiamo diversificato l’offerta free arricchendola di canali tematici e siamo riusciti a intercettare spazi di nuova domanda, abbiamo garantito ai nostri abbonati a Premium un’offerta ricca di sport, film e serie in una modalità pay accessibile. Questo in un Paese caratterizzato da una frammentazione particolarmente elevata. Per esempio in Spagna, dove Mediaset è presente, la tv di Stato non ha pubblicità: crea condizioni concorrenziali più favorevoli.
E sull’online?
Tutta la nostra offerta free è in streaming, c’è un’offerta di successo di catch up tv, e c’è Infinity. Siamo l’operatore che ha creato TgCom24, il sito di news più visto dopo quello di Repubblica e del Corriere. Siamo l’editore italiano con il maggior numero di video visti all’anno. Stiamo dimostrando la nostra capacità di rispondere a una richiesta sempre più esigente.
Eppure con gli Over the top…
Proviamo a paragonare broadcaster e Over the top. Le emittenti europee producono l’80% dei contenuti trasmessi. Sono player di un business model virtuoso centrato sui pilastri della proprietà intellettuale e dell’esclusiva. Reinvestono la quasi totalità del fatturato in creatività e occupazione, nel proprio Paese. Il nostro business è totalmente regolato anche quando cambiamo mezzo. Prendiamo ad esempio un tema delicato come la tutela dei minori. anche sulla rete usiamo gli stessi accorgimenti del digitale terrestre. Gli Over-The-Top non sottostanno ad alcun obbligo. Decidono loro come comportarsi, siamo alla mercé dei loro algoritmi. Le pagine dei giornali sono piene delle problematiche su fake news, cyberbullismo, addirittura alcuni investitori hanno ritirato campagne che venivano inserite vicino a contenuti offensivi su Youtube. Abbiamo limiti di affollamento pubblicitario, obblighi di investimento e programmazione di contenuti europei ed indipendenti, norme sulla responsabilità editoriale, obbligo di rettifica, il nostro mercato non può superare il 20% del Sic. Tutto questo in nome del pluralismo e della difesa dell’identità culturale europea. Ed un problema gravissimo, anche per i contenuti a pagamento, è la pirateria, un business parallelo che pesa sui bilanci.
E invece gli altri?
Invece loro possono competere organizzandosi come è meglio per i loro business. Il famoso “value gap” di cui tanto si parla è esattamente questo, il valore che si può generare fuori dalla compliance con le regole, che loro si possono permettere, noi no. Non generano occupazione: Facebook e Google in Italia impiegano meno di 200 dipendenti. Non investono i cospicui fatturati in creatività. Non pagano lo sviluppo delle reti su cui fanno correre i propri contenuti costruendo business. Profilano i clienti e raccolgono dati in libertà, al contrario dei broadcaster che devono contrattare passo passo con le authority, obbligate dalle norme europee ad un profondo rigore. Non parliamo poi delle tasse, a cominciare dalla fiscalità generale.
Cosa va fatto?
Cosa andava fatto, vorrà dire. L’Europa si è svegliata tardi. Non ha capito in tempo la necessità di dettare condizioni agli operatori globali per inserirli in un quadro di competitività equa con gli altri operatori. Vede, l’identità europea, per quanto frammentata, fa cardine sui diritti della persona. Si tratta di un punto da mantenere fermo anche con il progressivo avvicinamento al digital single market. Che dunque non può configurarsi come mercato passivo, prateria aperta a player globali che operano in violazione di regole generate da questo cardine identitario.
Detta così sembrerebbe che l’Europa andasse contro i propri stessi principi.
Non è questo, ovviamente è un’impresa difficile, e ovunque parlare di regolare Internet era impopolare finora, quando cioè sono risultate evidenti le conseguenze di una realtà così potente, lasciata alla mercé degli algoritmi. La difficoltà viene dall’impossibilità di estendere le norme attuali per regolare i nuovi entranti; si doveva, invece, disegnare un nuovo level playing field alleggerendo la regolamentazione per noi. E sostituendo norme puntuali solo per alcuni con direttive di princìpi, applicabili anche alle nuove organizzazioni globali e cogenti per tutti. E dal punto di vista economico, invece, la ricetta c’è: fai fatturato qui? Deve emergere. Va trovata una “dogana” anche per le aziende globali di Internet.
Quanto ascolto trovate presso la Commissione Ue?
Il Parlamento sta esaminando la direttiva sui contenuti audiovisivi: si torna a parlare di affollamenti pubblicitari orari. In un mondo che va verso il programmatic advertising è come parlare di una direttiva “a legna”, non al passo coi tempi. In quella stessa direttiva, che sarà recepita fra due anni, si prevede che le video sharing platform non avranno nessuno obbligo. Solo autoregolamentazione, limitata a protezione dei minori e hate speech.
La Commissione Ue però non sta con le mani in mano.
Oettinger era sensibile al tema. La Vestager è un’attaccante con un grande merito: ha dimostrato che gli Ott non sono intoccabili.
Frequenze: quando libererete la banda 700Mhz?
Rilascio finale nel 2022, certo non prima. Non possiamo. In quanto piattaforma rivendichiamo la necessità di accedere alle stesse innovazioni delle altre. Quindi serve che nel momento in cui verrà abbandonata la banda 700Mhz si possa contare sugli standard più premianti così da poter fornire un’offerta di grande qualità. Parlo di Dvb-t2 e Hevc, i nuovi standard in grado di raddoppiare la capacità trasmissiva. E poi un’osservazione di rigore: nessuna piattaforma è stata obbligata alle migrazioni, anche le telco l’hanno fatta esattamente quando il loro business ne aveva bisogno. In ogni caso la transizione sarà laboriosa: pianificazione, coordinamento con gli Stati confinanti, riorganizzazione Tv locali, refarming. Ma ripeto: al momento del nostro release dovranno già esser stati introdotti e consolidati, non solo negli apparati ma anche nei ricevitori, i nuovi standard.
A che punto siete nel dialogo con player e governo?
C’è sicuramente da parte del governo molta sensibilità e l’intenzione di costituire un organismo che riunisca gli stakeholder e le Istituzioni. Sarà uno strumento imprescindibile per approvare la road map per la transizione.
Come vede lo sviluppo del 5G?
Fortunatamente, strumentalizzazioni a parte, le frequenze su cui viaggerà non sono le nostre; credo che l’ Europa abbia chiaro che lo spazio vitale di frequenze per i broadcaster vada preservato. Nella posizione sulla banda UHf la Commissione è stata precisa: fino al 2030 le frequenze sotto 700 Mhz sono ad utilizzo primario della tv. Del resto sono i broadcaster che producendo opere originali difendono l’identità culturale europea.