“La misura contenuta nella ‘manovrina’ appare un tentativo di reagire alle pratiche più aggressive di concorrenza fiscale di altri paesi e per salvaguardare livelli minimi di gettito. Resta da valutare il trade-off tra l’efficacia, in termini di reale emersione di basi imponibili, di misure ad hoc e la coerenza con i principi generali del sistema tributario”. E’ la conclusione a cui giunge l’ufficio parlamentare del Bilancio passando in rassegna la cosiddetta “Web Tax transitoria”, norma introdotta ad aprile nella “manovrina” per favorire la regolarizzazione fiscale di società non residenti appartenenti a gruppi multinazionali attivi in Italia ma senza una stabile organizzazione nel nostro Paese.
In un “flash” dedicato a questo tema l’ufficio parlamentare del Bilancio approfondisce i contenuti e le potenzialità della misura “che, pur non essendo specificamente rivolta alle imprese operanti nell’economia digitale – si legge nel comunicato – è a queste che punta maggiormente date le loro ampie opportunità di sfuggire dalla tassazione nazionale”. Esemplare – sottolinea l’organismo indipendente – è il caso di due tra i maggiori over the top, Google e Facebook: “nel 2015 i ricavi dichiarati e tassati in Italia non superano rispettivamente lo 0,3 per cento e lo 0,1 di quelli europei, a fronte di transazioni localizzate nel nostro Paese stimate dall’Upb in circa il 2,4 cento e il 2,8 per cento”.
Sottolineando i punti deboli della norma, l’ufficio parlamentare del Bilancio fa notare che che “La procedura introdotta si configura come una sorta di sanatoria preventiva e volontaria, con una regolarizzazione agevolata delle posizioni fiscali pregresse e la garanzia per gli anni futuri di un trattamento basato sull’accordo e la collaborazione tra impresa e Amministrazione attraverso l’ammissione al regime di adempimento collaborativo introdotto nel 2015”.
Quattro gli elementi di criticità contenuti nella norma secondo l’analisi:
Al primo punto il fatto che la scelta confermi, “in assenza di un coordinamento internazionale, l’oggettiva difficoltà dei singoli Paesi di risolvere le complesse questioni tributarie legate alla diffusione dell’economia digitale. La disposizione, presentata come una imposizione sulle imprese digitali (web tax) – sottolinea l’ufficio parlamentare del Bilancio – adotta un approccio differente rispetto ad altre proposte e appare un più generale strumento antielusione e antiabuso diretto a imprese multinazionali, senza discriminare tra imprese digitali e non digitali”
Al secondo punto il fatto che si sia preferito incentivare l’adempimento fiscale volontario, legato quindi a una agevolazione. “Diversamente il Ddl 2526, il cosiddetto ‘Ddl Mucchetti’, che interviene sui medesimi temi ed è attualmente in discussione al Parlamento, prevede una penalizzazione – sottolinea la nota – con forte incentivo per le imprese a regolarizzare la propria condizione di stabile organizzazione per l’elevata entità del prelievo alla fonte in caso di mancata regolarizzazione”.
Emerge poi la preoccupazione che “proprio le imprese digitali potrebbero essere incentivate a rimanere ‘nell’ombra’ sfruttando i margini di elusione dei quali dispongono e cercando di differire la contrattazione dell’onere tributario. La convenienza ad aderire alla procedura sarà tanto maggiore per imprese per le quali un accertamento ordinario è più probabile e rischioso”.
Infine il fatto che la convenienza per le imprese, e per il Fisco, dipende anche “dalla valenza del vincolo, previsto dalla norma, di 50 milioni di ricavi prodotti in Italia in uno dei tre anni precedenti”.