Questo non è il nostro primo editoriale sull’Agenda digitale. Purtroppo, temiamo non sia nemmeno l’ultimo. Se lo fosse, significherebbe che l’Italia ha finalmente imboccato la via degli obiettivi di Europa 2020, un target che, al di là dell’effettivo e completo raggiungimento (brucia ancora la delusione di Lisbona 2010), dovrebbe rappresentare il faro sicuro dell’iniziativa innovatrice del governo, delle istituzioni, degli enti pubblici, delle associazioni imprenditoriali, delle forze sociali.
Invece, siamo qui a commentare un nuovo intoppo che potrebbe buttare all’aria un anno di lavoro del governo Monti e del Parlamento della passata legislatura. Al punto da mettere in discussione anche quel sotterraneo ma prezioso e tenace impegno preparatorio su cui in questi mesi si è speso il direttore generale dell’Agenzia Digitale, Agostino Ragosa.
La zeppa di cui parliamo è stata posta dalla Corte dei Conti che ha riscontrato una serie di vizi nello statuto dell’Agenzia Digitale. Col risultato che lo stesso governo Monti lo ha richiamato di soppiatto a Palazzo Chigi per evitare una figuraccia palese.
Non sta a noi giudicare se le osservazioni della Corte dei Conti siano effettivamente supportate da debolezze giuridiche presenti nel decreto sullo statuto dell’Agenzia, oppure se i dubbi sollevati non rispondano piuttosto al richiamo, stavolta in tema contabile, di quella “burocrazia inossidabile” di cui ha parlato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera.
Di fatto, però, siamo tornati alla casella di partenza come nel gioco dell’oca. Nelle more dell’incertezza tornano a farsi strada tanti particolarismi che dallo stallo hanno solo da guadagnare. I sussurri sulla “resurrezione” del Ddi suonano come campanello d’allarme.
Non stiamo qui a ripetere l’importanza della “riforma digitale” (a partire dalla PA) per creare posti di lavoro e competitività del sistema Paese, emergenza nazionale riconosciuta da tutti. Si tratta di guardare avanti con i fatti. E allora, invece che fermare tutto, lo stop della Corte dei Conti potrebbe fornire l’occasione per rivedere la governance di Agid evitando quel patchwork di competenze ministeriali su cui rischia di impantanarsi l’azione dell’Agenzia. Magari concentrandone la responsabilità a Palazzo Chigi: non tutto il male viene per nuocere. A volte.