Possiamo fare a meno dell’Agenda digitale? No. Perché? Perché se vogliamo restare tra i Paesi che “contano”, dobbiamo migliorare alcuni parametri che riguardano, per esempio, l’efficienza della Pubblica amministrazione, la competitività delle imprese, le infrastrutture tecnologiche, l’alfabetizzazione della popolazione.
Se guardiamo dove siamo, non c’è da sorridere. Non possiamo più parlare di digital divide ma di innovation divide. La nostra spesa IT rapportata al Pil si ferma all’1,32%, mentre la media dei 27 Paesi europei è del 2,19%. In Ricerca e Sviluppo spendiamo l’1,26% del Pil, quando l’Europa è al 2,01%. Per ogni milione di abitante in Europa si registrano 9,3 brevetti high tech; in Italia siamo a 3,3.
Le nostre piccole e medie imprese – l’ossatura dell’Italia che produce – usano l’e-commerce solo nel 4% dei casi. In Europa la media, sempre per le Pmi, è del 13%.
Entro il 2015 avremo coperto l’Italia con Internet veloce: a 2 Mega! Peccato che la soglia di riferimento verrà portata a 10. In Italia solo il 14% delle linee supera questa velocità; in Europa è del 59% e la Gran Bretagna, tra le eccellenze, è al 78%. Ma non è finita. Tra Fse e Fesr, i fondi europei dedicati allo sviluppo, abbiamo accumulato un ritardo nel loro utilizzo di circa il 60%. Dei 28 miliardi assegnati ne abbiamo adoperati poco più del 40%: inutile dire che siamo tra gli ultimi nella graduatoria. Spendiamo poco e spendiamo male. Un recente studio dell’Anci rivela che solo un terzo delle prime 40 città italiane con vocazione smart hanno definito la regia per guidare la pianificazione di questi progetti. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, ma servirebbe a poco.
Non è più un problema di soldi, ma di idee e di capacità di tradurre in azioni i troppi pensieri – mai per altro presentati come sistema unitario – che disordinatamente affollano le pagine dei giornali. Quando si tratta di imboccare la via, meglio, una via, ci perdiamo. Se non facciamo una norma che non sia cavillosa, non siamo contenti. Vogliamo ipernormare il Paese e poi abbiamo l’evasione fiscale e contributiva alle stelle, in buona compagnia con l’abusivismo edilizio e la scarsa attenzione all’ambiente.
L’emergenza va affrontata con provvedimenti urgenti e straordinari, individuando manager e assegnando loro ampi poteri di realizzazione. E le leggi devono andare in questa direzione per poter legittimare una marcia a tappe forzate. La regia dev’essere unitaria, altrimenti cadiamo nella frammentazione e nella dispersione. Come avvenuto per le Regioni. Le autonomie, mal gestite a livello di sistema Paese, hanno accentuato le diversità. Ogni Regione ha la sua Agenda digitale, ogni Regione ha i suoi sistemi informativi, ogni Regione ha i suoi progetti di innovazione digitale. Ognuno parte da “zero” e non fa tesoro delle esperienze altrui; per realizzare le stesse idee, si ricomincia ogni volta daccapo. Sinergie, sistema, economie di scala indicano paradigmi estranei al vocabolario pubblico.
Recentemente l’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano ha fornito indicazioni importanti sui risparmi che l’economia digitale potrebbe generare all’Italia, facendo chiaramente capire dove andare per migliorare i conti, senza necessariamente tagliare indiscriminatamente le spese o alzare il livello delle tasse. “35 miliardi potrebbero essere i risparmi complessivi provenienti da una PA più digitale – spiega Alessandro Perego, Ordinario al Politecnico di Milano e Responsabile Scientifico dell’Osservatorio. Più e-procurement, processi lavorativi più snelli, conservazione digitale dei documenti per aumentare la produttività dei controlli anti evasione, incremento dei pagamenti elettronici per recuperare una quota di evasione fiscale sono una fonte inesauribile di benefici per le pubbliche casse”. Ma non è tutto. “Altri 23 miliardi si potrebbero recuperare semplificando le relazioni tra PA e imprese, grazie alla digitalizzazione. Senza contare i 2 miliardi di minori oneri finanziari – prosegue Perego – con pagamenti puntuali da parte della PA”.
Quasi altri 10 miliardi potrebbero arrivare da una diminuzione dei costi grazie alla fatturazione elettronica e all’uso dell’e-commerce da parte di aziende e privati consumatori. “Il costo del non fare – continua Perego – è di un miliardo al mese! La lettura dei benefici in chiave di costo per il mancato realizzo ci fa capire che l’Agenda digitale è un obbligo al quale l’Italia non si può sottrarre”.
Le start up sono un ulteriore motivo di crescita, soprattutto quelle hi-tech, in grado di sviluppare nuova cultura e di contaminare il sistema delle imprese. 300 milioni all’anno in fondi destinati al loro sviluppo, potrebbero stimolare la crescita del Pil fino allo 0,2% all’anno. “Non abbiamo bisogno di eventi, ma di momenti di lavoro, per velocizzare la realizzazione dell’Agenda digitale italiana. L’edizione 2014 dell’Osservatorio, avviata lo scorso 13 novembre – conclude Perego -, punta a consolidare la sua Community, composta da importanti player delle Ict e dei servizi alle imprese, proponendo tavoli di lavoro congiunti con il mondo politico e istituzionale. Oltre al monitoraggio dell’avanzamento dei lavori dell’Agenda, lavoreranno insieme per un utile confronto sulle urgenze individuate dal Paese e per fornire proposte in termini di priorità e benefici. Le best practice, di livello nazionale e internazionale, proposte nei tavoli di lavoro, serviranno, invece, per stimolare la riflessione e la replica su larga scala, mettendo a terra esperienze già realizzate”. Non sono i soldi il vero problema, ma gli ostacoli come l’inerzia e la resistenza al cambiamento che hanno ingessato il nostro Paese.