VERSO IL CONSIGLIO UE

Occhini: “Letta non dimentichi la cultura digitale”

Il direttore di Aica: “Competenze informatiche chiave di volta dell’Agenda: serve un piano che coinvolga scuola e Pmi”

Pubblicato il 22 Ott 2013

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Le competenze digitali sono la chiave di volta per l’attuazione dell’Agenda e la strutturazione del mercato unico. Giulio Occhini, direttore di Aica, spiega al Corriere delle Comunicazioni su cosa il governo Letta deve puntare in vista del prossimo Consiglio Ue, il primo dedicato alla e-economy.

Le competenze digitali sono uno dei pilastri dell’Agenda europea ma ad oggi il governo italiano ha scelto di dare priorità ad altri progetti: anagrafe unica, identità digitale, fatturazione elettronica. È stato un errore accantonare il tema della cultura?

I progetti sono indubbiamente abilitanti alla PA digitale, ma perché abbiano successo, tra cittadini e imprese ma anche all’interno dell’amministrazione stessa, serve innescare uno “shock culturale digitale”. Bisogna che a tutti i livelli, dalle istituzioni alle persone, dai media alla politica alle imprese sia chiaro che il digitale rappresenta un traino essenziale per lo sviluppo e per affrontare i problemi che il nostro paese attraversa.

La scuola gioca un ruolo chiave.

Ovviamente sì. Oggi nessun ragazzo deve diplomarsi senza sapere come le tecnologie digitali stiano rivoluzionando il mondo del lavoro e quali competenze gli verranno richieste qualunque sia la sua attività. In questo senso va letto il progetto “IT4Jobs” che vede in campo il Miur, insieme ad Aica e Confindustria. Si tratta di un’azione è essenziale, soprattutto se si considera che vi sono ancora oggi curricula scolastici che non prevedono alcun riferimento alla realtà digitale. Ma agire sulla scuola non basta.

Cosa serve?

Una azione simile deve essere sviluppata nei confronti del mondo imprenditoriale in collaborazione con la associazioni di settore, così che non si perdano le grandi opportunità di rilancio delle tecnologie di “fabbricazione digitale”, ad esempio. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione che va a coinvolgere le Pmi, che sono l’architrave del nostro sistema produttivo. Se lavoriamo su queste due direttrici – scuola e impresa – sarà più facile far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro e quindi rilanciare anche l’economia del Paese. Ma bisogna fare in fretta perché il nostro digital divide tecnologico e culturale è oramai insostenibile.

Il gap culturale costa?

C’è una relazione misurabile tra la ricchezza di un paese e le competenze delle persone che vi abitano. L’ignoranza informatica ha costi enormi e nasce dalla carenza di pochi, semplici elementi che si potrebbero facilmente introdurre nella formazione scolastica e professionale – se solo si capisse che oggi siamo tutti “utenti digitali” a vario titolo, e si capisse che la mancanza di risorse economiche da dedicare è prima di tutto mancanza di “cultura”, di consapevolezza cioè di quanto sia importante investire in questo campo. L’ultima ricerca di Aica in questo campo, dedicata alla PA locale, ha calcolato che il costo complessivo della sola incapacità o inadeguatezza nell’usare gli strumenti informatici è di circa 200 milioni di euro all’anno. L’effetto di un corso di formazione di base, misurato empiricamente, è di aumentare del 12% la produttività individuale, con un guadagno complessivo stimato di ben 2,2 miliardi di euro per il comparto. Analisi precedenti relative all’impresa, al settore sanitario e bancario, alla PA centrale avevano dato risultati simili. Numeri alla mano, direi che non si può aspettare.

Cosa chiede al governo in vista del Consiglio Ue?

Di spingere sulla cultura digitale anche perché a Bruxelles c’è un interlocutore particolarmente “sensibile” come il commissario Ue per l’Agenda digitale, Neelie Kroes. Il faro può essere la Grand Coalition per i digital jobs con la quale si sollecita l’impegno in alcuni settori cruciali, a partire da un rinnovamento della formazione tale da chiudere il divario tra domanda e offerta per i posti di lavoro del settore digitale, assicurando che le competenze acquisite da chi studia siano effettivamente quelle di cui le aziende hanno bisogno. Importante anche rendere più facile certificare a un datore di lavoro le proprie competenze, in qualsiasi Stato membro. Occorre infine sensibilizzare i cittadini, facendo sapere che il settore digitale offre possibilità di carriera gratificanti, anche alle donne. Si tratta di azioni i cui Aica è impegnata da tempo.

Aica è nota per le certificazioni Ecdl, anche nella versione più avanzata. Su quali altri fronti è impegnata l’associazione?

Siamo diventati un po’ il luogo di incontro delle diverse “anime” del mondo imprenditoriale italiano. C’è Cio Aica Forum – che è il chapter italiano dell’European Cio Association – che vede in campo i Cio delle più grandi imprese del nostro paese. Inoltre lavoriamo con la rete associativa – da Assinform e Confindustria fino alle associazioni locali – che riunisce le migliaia di piccole e piccolissime imprese che fanno fatica ad adottare i nuovi modelli digitali e a sfruttarne le opportunità di crescita: per motivi a mio avviso di ordine culturale più che infrastrutturale.

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