Processo all’innovazione? Non intendiamo rispolverare slogan e
parole d’ordine neoluddiste, come nel No Logo della Naomi Klein.
Le culture locali e quelle ancestrali non possono sfoggiare il
marchio di garanzia della sostenibilità, come propria dotazione
costitutiva. Né, d’altra parte, la tendenza alla globalizzazione
è necessariamente marchiata dall’infamia di povertà e
sfruttamento crescenti.
Così mentre una parte del terzo mondo, grazie alla crescita
dell’economia globale del 4% ed oltre e a quella dei nuovi Paesi
industrializzati, compresa tra il 5 e il 10%, esce definitivamente
da quel girone, e a miliardi di persone si aprono, tra mille
problemi naturalmente, gli orizzonti della modernizzazione, fatti
di alimentazione, sanità, igiene, abitazione, scuola e
università, mentre i flussi turistici cambiano rapidamente il
volto quotidiano e il linguaggio prevalente delle nostre città
d’arte, il nostro Paese, e in parte l’Europa, pensa a
difendersi da questi cambiamenti, reintroduce doganieri, bolli,
visti, controlli.
L’innovazione permea la società e la politica dei Paesi in forte
crescita (non solo i Bric): le loro università si aprono, gli
ingegneri civili brasiliani affrontano temi sempre più complessi,
i softwaristi indiani programmi sempre più avanzati, l’est della
Cina pensa al dopo manifatturiero. L’ascensore sociale di questi
Paesi lavora a pieno ritmo, direbbe Ilvo Diamanti, sintetizzando
con questa espressione l’impatto dell’innovazione sull’intera
società.
Da noi il ministro dell’Innovazione deve introdurla per legge,
con il Codice dell’Amministrazione Digitale, perché la pubblica
amministrazione da sola non promuove innovazione, la subisce. Con
tre importanti eccezioni: la sanità, le pensioni, il fisco. Nella
sanità a macchia di leopardo l’innovazione si fa strada, non
solo nell’area medicale, ma anche in quella amministrativa.Nelle
pensioni (non nell’intero welfare, perché per il lavoro e
relativi servizi la situazione è assai più critica) l’Inps ha
fatto un grande lavoro di automazione cui ha dato anche seguito con
servizi di sportello evoluti. Nel fisco Sogei, forse in condizioni
di esclusività monopolistica – e quindi senza preoccuparsi troppo
del contenimento della spesa – ha tuttavia portato molto avanti il
livello di automazione: ci viene riconosciuto anche nei ranking
internazionali.
Ma il resto dell’amministrazione, compresa gran parte di quella
locale, se è lasciata a se stessa vivacchia, anzi invecchia,
brontola di fronte ad ogni spinta verso il cliente-cittadino, non
si riconosce da sola nessuna necessità di cambiamento del processo
lavorativo. Allo sportello di servizio la PA italiana, quando non
può più chiedere un timbro o un bollo, ricorre volentieri alla
fatidica frase “oggi le connessioni sono lente”. Ma non sono le
connessioni di telecomunicazioni di cui parla, sono le sinapsi
dell’organizzazione, i neuroni che dirigono la baracca, gli
incentivi, il merito, la trasparenza. In una parola, le Riforme
Brunetta, che il ministro è riuscito a far passare in Parlamento,
con determinazione encomiabile, ma non è ancora riuscito a far
passare nel corpaccione della Pubblica amministrazione.
Oggi gli strumenti per fare innovazione ci sono: ma solo cambiando
i processi di lavoro, affermando la responsabilità dei dirigenti,
riconoscendo il merito per i risultati quegli strumenti
diventeranno realtà, daranno risultati di tangibile innovazione
entrando nella nostra vita quotidiana, fornendo risorse al Paese
per affrontare i cambiamenti senza eccessivi timori.
E per evitare altri casi Sistri. Non il primo (vogliamo parlare del
portale del turismo? O delle varie carte dei servizi? O delle
difficoltà della Pec?), ma speriamo l’ultimo. A metà percorso
del piano eGov 2012 sembra opportuno interrogarsi se gli obiettivi
ambiziosi e assolutamente condivisibili del programma di Brunetta
hanno il motore giusto per essere portati avanti. La strategia del
ministro è di buttare il cuore oltre l’ostacolo, scuotere il
sistema con blitz decisionali e sperare che l’intendenza
segua.
Ma l’intendenza fatica a tenere il passo. Non è facile. Il
sistema burocratico è organizzato per ottenere il rispetto della
forma, non per l’efficacia dei risultati. Ed è un sistema
complesso, fatto di mille poteri di veto e contro-veto. La
rivoluzione informatica rischia di arenarsi sui materassi
assorbi-tutto di un apparato vischiosissimo nei suo funzionamenti
ma che nel contempo deve dare servizi tradizionali in maniera
digitale a 60 milioni di italiani “clienti”.
La strategia messa in campo è stata quella bottom-up, tipica
dell’informatica del passato quando un sistema (nelle aziende)
veniva messo a punto dai tecnici, adottato dai dirigenti e poi
trasmesso all’intera organizzazione. Ma l’“epoca Sap”, se
vogliamo usare una battuta semplificatrice, non è l’epoca del
web 2.0 e dell’open source.
Investire nell’informatica oggi significa investire nei processi.
Ed è da lì che bisogna ripartire. Chiedersi non tanto cosa fa un
determinato programma, ma come esso impatta nei mille meandri
dell’organizzazione. Si tratta di pensare meno alla forma e più
alla sostanza, più all’impatto nell’organizzazione e a come si
eroga il prodotto che non al software che lo supporta: dal top-down
al bottom-up. La PA darebbe servizi migliori e avremo meno casi
Sistri.