Troppi in questi giorni offrono consigli al Presidente del Consiglio Enrico Letta in materia di Internet e di Agenda Digitale. Non vorrei allora accodarmi allo stilicidio di richieste aggiungendone altre. E, in tutti i casi, ritengo sia più corretto rivolgermi non solo a Enrico Letta, ma al nuovo Parlamento. Qualche mese fa l’approvazione della legge “Agenda Digitale” ha dimostrato tutti i limiti culturali del mondo parlamentare nei confronti di Internet. Si confonde la “digitalizzazione dell’esistente” con la necessità di cambiare le regole del gioco affinché l’innovazione web possa dispiegare fino in fondo tutte le sue potenzialità rivolte allo sviluppo economico e sociale del Paese. L’esempio più eclatante è la riproposizione della carta di identità elettronica nell’epoca in cui si discute di identità web Ipv6. Oppure la Pec, ovvero la digitalizzazione della burocrazia della “ricevuta di ritorno”.
Senza scomodare Internet, sarebbe immensamente più semplice esemplificare, eliminare con qualche tratto di penna inutili “passaggi” burocratici concepiti esclusivamente per giustificare posizioni in “pianta organica”. E d’altronde, quando la stesura dei decreti attuativi dell’Agenda Digitale viene affidata a chi dovrebbe essere “esemplificato” attraverso procedure innovative, quali risultati ci si prefige di ottenere?
Ecco quindi la necessità di un cambio di cultura. Ecco la necessità di un cambio di paradigma. Cambio di cultura per le imprese, per i cittadini, per la Pubblica mministrazione. Soprattutto cambio di cultura per le classi dirigenti, in primis per chi fa politica.
Cosa mi aspetto dal Governo? Domanda mal posta. Io non mi aspetto nulla. Cosa mi aspetto che faccia un Governo per sostenere le comunità che abbiano la voglia di innovare? Tantissimo, soprattutto sotto il profilo della normativa e nella finalizzazione delle poche risorse disponibili. Ma il soggetto sono le comunità locali.
In fin dei conti le uniche iniziative “smart” italiane sono quelle messe in atto dalle comunità locali, in primis da città come Genova o come Bologna. Sono le comunità locali che hanno attivato le partnership con le grandi aziende che si occupano di smart grid o di informatica. Sono le comunità locali che partecipano ai bandi europei; sono le comunità locali che sperimentano sul loro tessuto i processi innovativi.
In fin dei conti i tanto sbandierati bandi del Miur (a proposito, che fine hanno fatto?) potrebbero consentire al nostro Paese di avere un “portafoglio di prodotti smart”; ma se non ci sono poi le città che li sperimentano, a cosa servirebbero? Ovvio che le imprese, i centri di ricerca, avrebbero interesse ad investire se poi si creasse a valle un mercato “smart”. Un mercato “smart” che generi utili, ma anche un mercato “smart” destinato al riuso delle buone pratiche. Ovviamente per buone pratiche intendo sia i modelli organizzativi e gestionali di una città “smart”, che il riuso dei software. Questi processi virtuosi vanno centralizzati in agenzie statali? Sicuramente no. Soprattutto, subordinare i finanziamenti dello Stato destinati all’innovazione web nei territori all’essere certificati come “smart” e “intelligenti” da agenzie statali è assolutamente sbagliato. Non è un Ministro o un Sottosegretario a Internet, ciò che è necessario all’Italia. Piuttosto servono politiche “Internet oriented”. Ma le politiche “Internet oriented” non sono l’appannaggio di un sapiente custode delle verità del web, né serve l’esperto di turno. La cultura del web dovrebbe permeare l’intero agire; non è cosa da esperti è la condizione imprescindibile per guardare in avanti.