PRIVACY

Covid19, i “wearable” aziendali sono a norma? Che fine fanno i dati dei lavoratori?

In forte aumento l’adozione di dispositivi per il contact tracing che consentono di mappare spostamenti e distanze di sicurezza nonché di misurare la temperatura. Le informazioni sono pseudonimizzate finché non viene riscontrata la positività al coronavirus: il datore di lavoro a quel punto può visualizzare “in chiaro” i dati del soggetto. Utile avviare una riflessione sul possibile impiego per un periodo limitato. L’analisi dell’avvocato Mattia Salerno

Pubblicato il 13 Nov 2020

Mattia Salerno

avvocato Pirola Pennuto Zei & Associati

covid-coronavirus

Come noto, tra le attività volte a contenere e contrastare la diffusione del virus Covid-19, quelle di contact tracing – come identificazione delle persone che hanno avuto contatti con un caso accertato di infezione da Coronavirus – assumono una rilevanza primaria, in quanto consentono – perlomeno in potenza – di limitare il contagio e di tracciarne una “demografia”. Il tracciamento dei contatti acquista poi un’importanza particolare nel contesto dell’attività di impresa, ove le aziende hanno forte interesse a circoscrivere il più possibile l’incidenza del virus sulla popolazione aziendale, evitando così che l’affezione da Covid possa avere delle ripercussioni sulla salute e sicurezza del luogo di lavoro.

A fronte di tale nuova necessità, il mercato si è rapidamente evoluto in modo da offrire soluzioni di tracciamento dei contatti tali da consentire il monitoraggio della situazione epidemiologica anche sul luogo di lavoro. A tal riguardo, sorvolando sulle app di cui si è già discusso profusamente nei mesi passati, risulta opportuno soffermarsi su un altro prodotto tecnologico di contact tracing: i rilevatori di prossimità indossabili. Seppure l’impiego dei “wearable” – per usare un anglicismo – sul luogo di lavoro sia tutt’altro che nuovo – ad esempio nel settore farmaceutico, chimico, dell’automotive e della logistica -, l’avvento della pandemia ha portato ad implementare tali dispositivi per nuove finalità, ovverosia il tracciamento dei contatti e, indirettamente, il contenimento del virus. A tal fine, i wearable sono dotati di diverse funzionalità, come la rilevazione delle distanze di sicurezza tra un dispositivo e l’altro, il monitoraggio degli spostamenti dei lavoratori, la misurazione della temperatura corporea, la possibilità per il lavoratore di segnalare al proprio datore di lavoro l’insorgere dei sintomi del virus.

Il mercato offre una notevole varietà di soluzioni tecnologiche di questo tipo, dotate di altrettanto varie funzionalità; tuttavia, buona parte dei sistemi di wearable aggregano i dati raccolti dai dispositivi forniti in dotazione ai lavoratori su una piattaforma accessibile al datore di lavoro. Tali dati, nello specifico, vengono usualmente conservati in forma pseudonimizzata finché non viene riscontrato un caso positivo; a quel punto, il datore di lavoro potrà visualizzare “in chiaro” i dati del soggetto positivo e, di frequente, anche quelli delle persone interne all’organizzazione che hanno avuto contatti con quest’ultimo, potendo così adottare le opportune determinazioni.

A prescindere dalle funzionalità offerte dai diversi wearable, è necessario domandarsi preliminarmente se l’impiego di dispositivi indossabili da parte delle imprese ai fini del tracciamento dei contatti sia consentito dalla legge. In materia di contact tracing, il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, aggiornato da ultimo il 24 aprile scorso, dispone che “l’azienda collabora con le Autorità sanitarie per la definizione degli eventuali “contatti stretti” di una persona presente in azienda che sia stata riscontrata positiva al tampone Covid-19. Ciò al fine di permettere alle autorità di applicare le necessarie e opportune misure di quarantena.

Nel periodo dell’indagine, l’azienda potrà chiedere agli eventuali possibili contatti stretti di lasciare cautelativamente lo stabilimento, secondo le indicazioni dell’Autorità sanitaria” (art. 11). Sin da una prima lettura della norma, risulta evidente che il tracciamento dei contatti è interamente demandato alle competenti Autorità sanitarie, mentre il ruolo delle imprese è limitato alla collaborazione con queste ultime nel reperimento delle informazioni necessarie a ricostruire la filiera dei contatti. Tale impostazione è stata confermata anche dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, che ha più volte sottolineato che l’unica attività di tracciamento dei contatti da ritenersi legittima è quella svolta dalle Autorità sanitarie, in quanto fondata su un’espressa base giuridica (segnatamente, il D.L. n. 28/2020, convertito dalla L. n. 70/2020).  Di conseguenza, ha chiarito il Garante, “ogni altro trattamento finalizzato al contact tracing risulta privo di un’adeguata fonte giuridica legittimante e, pertanto, effettuato in violazione della normativa europea e nazionale in materia di protezione dei dati personali”. Alla luce di quanto sopra riportato, è quindi chiaro che ai datori di lavoro italiani è attualmente preclusa l’adozione di sistemi di contact tracing di qualunque tipo.

Alla luce dell’aggravarsi della pandemia e della primaria esigenza delle aziende di contenere il più possibile il contagio sul luogo di lavoro, è necessario riflettere sull’adeguatezza dell’attuale sistema di contact tracing. Allo stato attuale, un’impresa che riscontra un positivo tra i propri dipendenti deve collaborare con le Autorità sanitarie per ricostruire la filiera dei contatti del soggetto positivo. Nella prassi, tuttavia, spesso i datori di lavoro si attivano autonomamente, ancor prima di aver ricevuto istruzioni, nel ricostruire gli ultimi contatti del lavoratore positivo, al fine di poter allontanare quanto prima dal luogo di lavoro ogni persona potenzialmente infetta. Ciò, ovviamente, in violazione della normativa sopra richiamata, ma a soddisfazione di una concreta esigenza di sicurezza sanitaria. Tenuto conto, quindi, delle attuali necessità delle imprese, delle finalità perseguite e dei pregiudizi che potrebbero subire gli interessati in caso di utilizzo non regolamentato da parte delle organizzazioni di sistemi di tracciamento, potrebbe essere utile avviare una riflessione da parte delle istituzioni sul possibile impiego di tali dispositivi per un periodo limitato e in presenza di misure tecniche e organizzative che permettano di limitarne l’invasività nella sfera dei diritti e delle libertà fondamentali dei lavoratori.

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