In questi giorni si è molto discusso della possibilità e dell’opportunità di utilizzare i dati relativi all’ubicazione (ossia i dati che indicano la posizione geografica del dispositivo mobile utilizzato da un utente di un servizio di comunicazione elettronica) per monitorare il rispetto da parte delle persone dei decreti che limitano gli spostamenti su tutto il territorio nazionale. Siamo in una fase storica, che ha costretto – non senza critiche – il Governo a sospendere alcune libertà costituzionali.
Inquadrando il problema esclusivamente sul piano del diritto dei dati personali, il punto di riferimento è rappresentato dalla direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche (direttiva e-privacy).
La direttiva e-privacy, comune a tutti gli Stati membri dell’Unione europea, prevede che i dati relativi all’ubicazione possano essere trattati soltanto solo se resi anonimi o con il consenso degli interessati, salva la possibilità per gli Stati membri di introdurre misure legislative per salvaguardare la sicurezza pubblica anche in deroga ai limiti del trattamento su base anonima ovvero previo consenso.
In base all’attuale quadro normativo, quindi, le autorità preposte al contenimento del Coronavirus possono utilizzare (come pare sia accaduto in questi giorni in una delle Regioni più colpite dalla pandemia) i dati relativi all’ubicazione dei cittadini, su base aggregata e senza possibilità di re-identificare le persone mediante un processo a ritroso.
Un trattamento di questo tipo consente di monitorare, in forma anonima, la concentrazione di dispositivi mobili in un determinato luogo, ponendo così le autorità nella condizione di valutare l’efficacia delle misure di controllo degli spostamenti sin qui adottate e l’eventuale necessità di ulteriori provvedimenti.
Cosa ben diversa però è controllare gli spostamenti di una singola persona in forma non anonima, per esempio allo scopo di sanzionare chi, avendo l’obbligo di restare a casa, non si attiene ai provvedimenti delle competenti autorità.
Si tratta di una prospettiva da alcuni temuta, perché evoca scenari orwelliani di sorveglianza di massa, e da altri auspicata, perché considerata come il prezzo necessario da pagare, in termini di sacrificio delle libertà individuali, per contrastare in modo efficace e rapido la diffusione dell’epidemia, anche sulla scia delle esperienze di altri ordinamenti, molto lontani dal nostro, che sono riusciti a limitare efficacemente il contagio anche attraverso misure di sorveglianza individuale degli spostamenti.
La domanda allora è: sulla base del quadro normativo attualmente vigente, un modello di sorveglianza individuale delle persone, non basato sul loro preventivo consenso, è replicabile anche in Italia?
Il trattamento di dati personali, compresi quelli relativi all’ubicazione, possono essere utilizzati, senza il consenso dell’interessato, per motivi di interesse pubblico connessi tra l’altro alla protezione da gravi minacce per la salute, come una pandemia su scala mondiale. Tuttavia, perché ciò avvenga legittimamente, è necessario che lo Stato adotti specifiche disposizioni legislative che inscrivano la sorveglianza mediante il monitoraggio dei dati di ubicazione all’interno di un quadro di garanzie per l’interessato, avuto riguardo al tempo e la durata del trattamento, alle specifiche finalità del monitoraggio e le conseguenze che possono derivarne per l’interessato, alla conservazione dei dati, nonché alla possibilità per l’interessato di tutelare i propri diritti dinanzi all’autorità giurisdizionale.
Al riguardo, va detto che oggi in Italia manca un quadro di garanzie di questo tipo in quanto il legislatore italiano non ha sin qui adottato alcuna specifica norma volta a disciplinare il monitoraggio delle persone per ragioni di contrasto al diffondersi dell’epidemia; tale funzione non può essere svolta dalle disposizioni sul trattamento dei dati personali nel contesto emergenziale contenute all’art. 14 del D.L. 9 marzo 2020, n. 14; e ciò in quanto tali disposizioni non prevedono alcuna regola su tempi, modalità e scopi del monitoraggio della posizione, non consentendo quindi di verificare l’esistenza di un rapporto di necessità e proporzionalità tra la restrizione della libertà dei singoli e il perseguimento dell’obiettivo della lotta al contagio.
Pertanto, oggi un monitoraggio della posizione non basato sul consenso avverrebbe al di fuori di regole in grado di assicurare che il sacrificio delle libertà individuali sia proporzionato e necessario rispetto al fine di contrastare efficacemente il diffondersi del contagio sul territorio nazionale. Si comprendono quindi le perplessità espresse al riguardo nei giorni scorsi dal Garante per la protezione dei dati personali. Ovviamente il legislatore potrà intervenire d’urgenza sull’attuale quadro normativo con specifiche misure sul monitoraggio della posizione delle persone, ove si arrivi alle conclusione che le attuali misure di controllo degli spostamenti non sono sufficienti allo scopo di contenere il contagio.
Non mancano peraltro applicazioni per smartphone – già sviluppate o allo studio – che mirano a contrastare il diffondersi dell’epidemia con un approccio dal basso, basato sulla responsabilità e la collaborazione delle persone e quindi sul loro consenso; secondo questo approccio, sono infatti le persone a scaricare sul proprio telefono l’applicazione e a condividere volontariamente informazioni personali la cui conoscenza potrebbe essere di aiuto nel contrasto all’epidemia (per esempio, ubicazione, insorgenza di sintomi come tosse o febbre in un dato giorno, etc…); sapere di essere entrati in contatto con chi ha sviluppato i sintomi, ci consente infatti di rispettare l’obbligo di isolamento domiciliare per tutto il periodo di possibile incubazione, evitando così il diffondersi del contagio.
Tuttavia, per essere efficaci, applicazioni di questo tipo dovrebbero essere adottate in brevissimo tempo da tutti i cittadini, che poi con cura dovrebbero aggiornare le informazioni rilevanti da condividere. Uno scenario, questo, difficilmente realizzabile a breve, anche per ragioni legate alla scarsa dimestichezza di una parte rilevante della popolazione con strumenti come app e smartphone. Ma nella lotta all’epidemia uno dei fattori decisivi è proprio il tempo.