Il 39% degli italiani sarebbe disposto a cedere i propri dati privati in cambio di denaro. Anche se la richiesta arrivasse da un totale sconosciuto. È questo l’allarmante quanto inquietante quadro che emerge da un’indagine a firma di Kaspersky Lab. Il dato italiano in realtà è perfettamente in linea con la media globale, ma nello scendere nel dettaglio delle domande poste agli utenti italiani il nostro Paese si “distingue” andando oltre la media.
Ad esempio sei il 56% degli utenti a livello globale ritiene che raggiungere una privacy totale nel mondo digitale sia impossibile, all’esame dei singoli Paesi l’Italia si trova nella parte alta della classifica con il 63,5% degli utenti. Il che da un lato sembrerebbe dimostrare l’alto livello di comprensione della difesa della privacy da parte degli italiani – “realisti” oltre la media – ma dall’altro aprirebbe un “varco” allo sfruttamento dei dati: come a dire visto che la privacy non si può tutelare fino in fondo allora tanto vale monetizzare i propri dati. “Invece di difendere l’integrità dei propri dati e della propria immagine online, molti scelgono di “svenderli”, ma con costi e conseguenze che possono essere potenzialmente rilevanti”, si legge nel report Kaspersky.
Fra l’altro gli italiani sarebbero maggiormente dispositi a cedere i propri dati anche in cambio di prodotti o servizi o comunque di “qualcosa in cambio” anche che non sia denaro: una persona su cinque tra quelle coinvolte nello studio di Kaspersky Lab a livello globale (18%) ha affermato di essere disposto a sacrificare volentieri la propria privacy e a condividere i propri dati per poter ottenere qualcosa a titolo gratuito in cambio. Percentuale che sale al 29% nel caso dell’Italia. Kaspersky Lab fa però notare che “i dati condivisi volontariamente online potrebbero creare problemi inimmaginabili in un secondo momento, arrivando a danneggiare anche la reputazione o la carriera”. Sta diventando sempre più comune per i datori di lavoro (attuali o potenziali)- evidenzia l’azienda russa – esplorare canali social come LinkedIn, Instagram o Facebook per verificare la rispettabilità del proprio staff o dei possibili candidati e per accertarsi che i lavoratori non screditino in alcun modo l’azienda. Gli stessi dipendenti devono anche prestare molta attenzione a non rivelare troppe informazioni del loro lavoro o di loro stessi sui social media.
I dati di Career Builder – sottolinea Kaspersky – suggeriscono che il 57% dei datori di lavoro ha trovato contenuti sui social media che l’hanno portato a non assumere un potenziale candidato; un terzo (34%) avrebbe rimproverato o addirittura licenziato un dipendente a causa dei contenuti condivisi online.