L'INTERVENTO

Stefano Rodotà e l’etica del moralismo

A tre anni dalla scomparsa del primo Garante della Privacy italiano, l’avvocato Rocco Panetta accende i riflettori su quelli che furono i suoi principi guida nella difesa dei diritti fondamentali, inclusa la protezione dei dati personali. Principi che oggi più che mai diventano attuali in un clima in cui si fa sempre più necessario il rafforzamento degli “anticorpi democratici”

Pubblicato il 06 Lug 2020

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Sono già passati tre anni da quando Stefano Rodotà ci ha lasciati. Un’assenza che si percepisce quotidianamente e che – natura degli anniversari vuole – si fa sentire con ancor più insistenza proprio nelle settimane a cavallo della ricorrenza. Ringrazio il direttore Mila Fiordalisi per essersi ricordata di quanto io sia stato privilegiato nel godere dell’affetto e degli insegnamenti di Rodotà e di avermi chiesto pertanto di scrivere qui un suo breve ricordo.

Mi sono dunque chiesto quale potesse essere il modo migliore per ricordarlo, dato che negli anni molto è stato detto e da molti che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e conoscerlo. Al tempo stesso, la velocità con cui gira questo nostro mondo, ha anche fatto si che le nuove generazioni avessero sempre meno occasioni di leggere i suoi scritti, anche quelli più divulgativi, non necessariamente quelli più dotti e questo impone a noi di perpetrarne il ricordo, di propalarne il pensiero, di citare, quando possibile ed utile, le sue massime.

La società italiana senza Rodotà è più povera di idee, più debole di pensiero e più esposta al populismo e ai massimalismi.

Rileggerne i libri, riscoprirne le lezioni, accostarsi alle sue parole con gli occhi di un tempo che continua a correre frenetico mi è quindi sembrato l’impegno migliore. Si tratta, infatti, di un esercizio che non solo ripaga la memoria, ma che più di tutto mostra e dimostra l’attualità incessante del pensiero di quello che per chi scrive, come per chiunque abbia voluto prestare orecchio e coscienza ai sui insegnamenti, è stato un autentico Maestro.

Quest’anno, tra gli altri, mi sono con piacere e nuovamente imbattuto in un agile volume pubblicato per Laterza nel 2011. Già il titolo, “Elogio del moralismo”, esprime la quintessenza di Rodotà. Le prime righe, poi, aprono le porte del suo mondo: “Sono un vecchio, incallito, mai pentito moralista”. Rileggere questo incipit, lo confesso, mi ha strappato un sorriso, soprattutto conoscendo la prosecuzione e il senso ultimo di un pamphlet forse non tra i più noti, ma sicuramente tra i più necessari, allora come in questo complesso presente, per ricordare Rodotà, l’uomo come l’intellettuale, e per perseverare nel mettere in pratica i suoi insegnamenti.

Rodotà parlava di moralismo e si professava moralista, ma l’accezione e il senso con cui intendeva e praticava tali locuzioni erano ben lontani dal sentire comune. Ancora oggi il termine moralista, e analogamente il moralismo è accompagnato da un amaro sapore dispregiativo, inteso come quel modo di essere e di fare in virtù del quale i propri giudizi vengono filtrarti attraverso il rigoroso rispetto di un precostituito ordine di principi morali. Un atteggiamento spesso fine a sé stesso e che sempre più comunemente mal cela una tendenza a compiacersi in privato dei vizi condannati in pubblico, esattamente come in una sorta di perversa dipendenza.

L’essere moralista di Rodotà ha, invece, tutto un altro sapore: “La parola [moralista] mi piace, perché richiama non una moralità passiva, compiaciuta, contemplativa e consolatoria, ma un’attitudine critica da non abbandonare, una tensione continua verso la realtà, il rifiuto di uno storicismo da quattro soldi che, riducendo a formula abusiva l’hegeliano “tutto ciò che è reale è razionale”, spalma di acquiescenza qualsiasi comportamento pubblico e privato”. Si tratta di un moralismo che il professore amava definire “attivo”, non già un’accettazione statica e passiva del mondo che ci circonda, ma un moto di denuncia reattivo nei confronti delle ingiustizie, dell’illegalità e, più in generale, della perdita di etica pubblica: “E il moralismo non è la rivolta delle anime belle, la protesta a buon mercato, fine a se stessa. S’incarna sempre di più in azione, e si fa proposta politica. Stanno comparendo i moralisti “attivi”, che cominciano a trasformare il loro disgusto non in semplici esecrazioni, ma nell’attenzione minuta per i fatti, nel tallonamento continuo degli “immorali””.

Per Rodotà essere moralisti costituiva una vera e propria missione, una pratica da esercitare quotidianamente, diffusamente, coraggiosamente. Soffiata via l’odiosa cenere che impolverava un termine abusato e smarrito nel suo significato, il Professore gli ha conferito nuova linfa e una funzione sociale, colmare il solco sempre più profondo tra azione ed etica pubblica: “Si riscopre un bisogno di moralità: verso il quale può sospingere anche una pratica costante, insistente, fastidiosa addirittura, di moralismo. Credo che sia tempo di correre consapevolmente questo rischio, e di ridare al moralismo la forza d’essere termine di denuncia e di paragone, riflessione impietosa su quanto ci circonda e, insieme, precetto: magari non vincolante formalmente, ma capace di suscitare, se non rispetto in coloro ai quali si rivolge, riprovazione in quanti assistono all’inverecondo spettacolo”.

Il moralismo attivo, “puro e pratico insieme”, a cui Rodotà pensava era pura militanza. Un richiamo rivolto al Paese, per contrastare la piaga della corruzione e della dilagante e diffusa illegalità, al decadimento politico e civile dell’Italia (“Il moralista può contribuire al rafforzamento degli anticorpi democratici, ed è questa la piccola ambizione di questo piccolo libro. Anche per passare dall’indignazione (che, come ci dice proprio la vicenda di Tangentopoli, può repentinamente convertirsi in delusione) alla lunga lena che l’esercizio quotidiano della moralità può consentire”). L’attualità delle osservazioni di Rodotà ha di certo una presa sconfortante. E tuttavia il portato più profondo dell’opera riesce a tessere una rete di sicurezza sotto il precipizio della rassegnazione, invitando a cominciare, ognuno per sé e collettivamente, una nuova scalata verso quei principi e quei valori che dovrebbero comporre una società fondata sull’etica pubblica e privata, da raggiungere aggrappandosi ai picchetti dello spirito critico e del moralismo attivo.

Rodotà era davvero un “moralista militante” (e non a caso un estratto del menzionato libro fu pubblicato proprio con questo titolo). Ne ha dato costantemente prova nel corso della sua intera esistenza, in tutte quelle battaglie intellettuali e politiche (nel senso puro del termine) che portò avanti senza mai cedere al compromesso, senza mai accettare sopraffazioni e ingiustizie. Strenue difensore dei diritti fondamentali, di tutti i diritti fondamentali, in ogni riflessione o posizione che li coinvolgesse, così come nelle discussioni attorno alle tematiche ambientali e nell’impegno per il riconoscimento e la tutela dei beni comuni, Rodotà ha dato dimostrazione di essere un moralista nel senso appena descritto. Un atteggiamento mantenuto anche nei ragionamenti incentrati sulla protezione dei dati personali, dove il suo pensare proattivo e sempre attento alla dimensione dei principi e dei valori ci ha donato indagini lungimiranti e tutt’ora fondanti la nostra materia. Il primo in assoluto in Italia e tra i primi in Europa e nel mondo a giammai demonizzare la tecnologia, intuendo al tempo stesso che l’irrompere di essa nella vita di tutti i giorni avrebbe determinato una profonda rivoluzione nel diritto e nella società.

Al tempo del suo ritorno all’insegnamento alla Facoltà di Giurisprudenza, dopo la lunga parentesi da parlamentare, nei primi anni ’90 dello scorso secolo, l’arrivo di Rodotà segnò la fine del dogmatismo e l’inizio dello svecchiamento dell’insegnamento del diritto privato. Durante le sue lezioni di parlava di diritto e diritti, di ambiente, di bioetica, di transessualismo, di testamento biologico, ma anche di proprietà – il c.d. terribile diritto – e dei tanti diritti fondamentali impattati dal trattamento dei dati personali: se solo mi sovviene il fatto che il suo predecessore, peraltro un suo coetaneo, era solito impegnare a quei tempi un intero anno accademico a far approfondire solo l’istituto delle donazioni, mi vengono i brividi, ma al tempo stesso non c’è da meravigliarsi se negli anni le università hanno sfornato migliaia di giurisprudenti inconsapevoli ed impreparati ad essere professionisti, cittadini, donne e uomini di questo Paese.

Rodotà era un moralista militante accademico, nemico dei baronati e del nepotismo universitario, causa di quel decadimento culturale e morale che per anni ha flagellato le nostre università e mortificato tanti talenti senza speranza di carriera, tanto da non aver alfine creato una sua vera scuola: sono tanti che si professano allievi di Stefano Rodotà, senza esserlo per davvero e tanti dei suoi veri allievi non hanno mai neanche vinto un dottorato di ricerca, figuriamoci una cattedra universitaria! A tre anni di distanza dalla perdita di uno degli intellettuali più importanti del nostro tempo, giurista e accademico, primo Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, primo Presidente della Commissione per la Valutazione di impatto ambientale, Presidente del Gruppo dei Garanti Europei della protezione dei dati ed estensore, per l’Italia, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, occorre abbracciare con sempre più decisione il prezioso legato offerto dal suo pensiero.

Facciamoci guidare dallo spirito critico, sperimentiamo tutti un esercizio di moralità attiva, torniamo tutti ad essere militanti dell’etica, moltiplicando il richiamo ad essa e la sua presenza ovunque ed in ogni circostanza.

Rodotà ci ha insegnato come farlo, tocca ora a noi metterlo in pratica.

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