L'INTERVISTA

5G e rete unica Tlc, Geraci: “L’Italia rischia l’impasse, serve un piano industriale serio”

Il docente di Economia e Finanza alla New York University Shanghai e alla Nottingham Ningbo China, ex Sottosegretario al Mise, accende i riflettori sulla necessità di mettere subito in campo risorse e stringere sul da farsi. “Troppi annunci social e ‘innamoramenti’, bisogna andare a fondo delle questioni”

Pubblicato il 12 Nov 2020

michele geraci

L’Italia deve chiarire la propria posizione sul fronte dell’infrastrutturazione. Con un piano industriale serio e di lungo periodo, anche e soprattutto sulle telecomunicazioni e quindi sulla banda ultralarga. È arrivato il momento di uscire dall’era dei dibattiti”: Michele Geraci, ex Sottosegretario al Mise (Governo Conte I), docente di Economia e Finanza presso la New York University Shanghai e la Nottingham Ningbo China, fa il punto con CorCom sui dossier chiave in tema di reti e connettività e invita il Governo italiano ad accelerare sia sul fronte dell’impiego delle risorse “quelle che già ci sono, per il Recovery Fund c’è tempo” – puntualizza – sia su quello geopolitico “il mercato ha bisogno di capire quale sia la posizione in termini di cybersecurity e quindi delle forniture 5G”. E non dimentica il tema dei temi, quello della Rete Unica di tlc: “Sono anni che si parla di newco delle reti e che si fanno proclami, ma la verità è che da un governo all’altro nessuno ci ha messo davvero la testa”.

Geraci, partiamo proprio dalla Rete Unica, ossia del progetto AccessCo di Tim e Cdp. Cosa ne pensa?

Penso che si stiano commettendo una serie di errori in termini di approccio. La rete unica di Tlc frutto dell’integrazione degli asset di due soggetti, Tim e Open Fiber, con la quota di maggioranza in capo a un operatore verticalmente integrato (Tim, ndr) sarebbe plausibile in un Paese con regole certe ex ante, un sistema di controllo rigido e immediate penali in caso di non rispetto delle regole. Il tutto a garanzia della parità di accesso equa e trasparente e quindi della concorrenza. Ebbene, non nascondiamoci, questo Paese non è l’Italia. Quel che è avvenuto e avviene nel mondo delle Tlc è presto detto: ricorsi su ricorsi, cause che durano anni, multe che arrivano dopo sentenze emesse a distanza di troppo tempo. A danno del ricorrente-ricorrenti che nel frattempo perdono potere di mercato e vanno in crisi di liquidità.

E c’è un altro elemento da non sottovalutare: il Governo interviene su una tematica infrastrutturale di cui non ha adeguata competenza. Servono analisi tecniche e approfondimenti prima di arrivare ad esprimersi su quel che sia meglio per il Paese. Il dossier è complesso e articolato e vanno valutati tutti gli effetti collaterali, che peraltro sono irreversibili. Compreso quello “orizzontale”: il tema non è solo la proprietà in capo all’operatore verticalmente integrato ma anche quello della fusione di due aziende, Tim e Open Fiber. Doppio nodo da sciogliere. Le telco che si dicono contrarie al progetto di rete unica non hanno tutti i torti perché non ci sono abbastanza garanzie a tutela della concorrenza, anche se il progetto è aperto al co-investimento. La rete di Tlc può essere sì un monopolio naturale lato backbone ma per l’accesso alla stessa servono regole chiare prima che si arrivi all’integrazione fra società.

Dunque la rete unica non s’ha da fare?

Dico che prima della rete unica serve un piano industriale di lungo termine sulla banda ultralarga e sui servizi. Altrimenti siamo al dibattito social, che fa presa in termini di immagine ma non porta niente di buono in termini concreti. Il piano industriale va fatto oggi, non domani. Le risorse del Recovery Fund non si vedranno fino a giugno dell’anno prossimo. E un Paese che deve puntare sul digitale e l’innovazione e che è già in ritardo non può permettersi di prendere ancora tempo. E peraltro le dico anche che il dibattito è troppo concentrato sull’infrastruttura fisica e poco sui servizi che dovranno essere sviluppati. Il mercato si è evoluto: non si estraggono grandi guadagni dalla rete ma dall’offerta. Le telco non si fanno più concorrenza sulle infrastrutture, non è sull’accesso che si monetizza il business ma sulle applicazioni e i servizi che si offrono al mercato – consumer e business – in termini di efficienza delle reti, servizi e applicazioni.

Passiamo al 5G: Trump ha fatto molte pressioni sugli alleati, Italia inclusa, affinché le aziende cinesi fossero escluse dalle reti in Europa. Con Biden cambieranno le cose?

Credo che su questo fronte ci sarà meno pressione sull’Europa, ma di sicuro Biden non lascerà campo aperto a Huawei & co. Alcune strette negli Usa erano già state allentate nei mesi scorsi, perché si è compreso che è impossibile ricondurre a livello nazionale la realizzazione di reti e sistemi complessi come le reti di Tlc. Si tratta di una matrice inestricabile di componenti. A partire dai chip, su cui in questo momento sono puntati i riflettori. Nessun vendor è indipendente dalle tecnologie di altri Paesi. E per di più c’è una questione di qualità delle infrastrutture: se Huawei non proponesse componenti di elevata qualità non si porrebbe il problema della sostituzione. La superiorità tecnologica di molte componenti è indiscutibile, altrimenti Huawei non avrebbe potuto posizionarsi fra i top vendor. Per le telco la scelta dei fornitori è fondamentale in termini di sviluppo della proprie reti e di competizione di mercato. In Europa la maggior parte dei Paesi non ha preso decisioni nette nei confronti delle aziende cinesi. E comunque da qualsiasi decisione si può tornare indietro. Diciamo che è l’ambiguità a tenere testa. L’Italia non si è mai espressa, se non in maniera molto generale, sulla “questione Huawei”, ma certamente è arrivato il momento della chiarezza se non si vuole impantanare il roll out delle reti.

La Commissione Ue ha fornito le linee guida e attende i piani dei singoli Paesi.

È più che giusto che si prenda una decisione a livello continentale. Ci sono operatori attivi su più Paesi: non si può pretendere che le telco scelgano questo o quel fornitore a seconda del Paese in cui vanno a fare le reti. Ma l’Europa è molto lenta su questo tema strategico e ha una visione bipolare: da un lato punta a creare campioni tecnologici dall’altro prende mesi e mesi per prendere decisioni, da un lato vuole il consolidamento dall’altro boccia le fusioni, da un lato vuole la leadership 5G dall’altro lascia in capo ai Paesi decisioni strategiche quali l’assegnazione dello spettro e le roadmap. È una visione che non può funzionare e infatti l’Europa sta accumulando un ritardo enorme anche sul 5G.

E sul fronte cloud? Che ne pensa del progetto Gaia-x?

Interessante ma tardivo anche quello. Vedremo dove si andrà a parare.

Insomma, siamo messi male su tutti i fronti.

Certamente non siamo messi bene. La pandemia da Covid-19 può trasformarsi in una grande occasione per rivedere i piani e puntare sugli asset strategici, ma noi non sfruttiamo mai le occasioni, perché ci perdiamo nei dibattiti sterili. Manchiamo sia di visione strategia, di coraggio ma anche e soprattutto, di capacità esecutiva e manageriale, competenze necessarie per trasformare gli annunci in realtà. Il disastro economico e sociale in cui versa il paese da 8 mesi purtroppo è la conferma della nostra incapacità istituzionale ad affrontare e risolvere le crisi. Serve un nuovo Rinascimento, ma il tempo stringe e non c’è il cuore di allora.

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