“Se andiamo avanti di questo passo, con un eccesso di burocrazia e limiti elettrosmog inadatti alla sfida che ci attende, ci vorrà molto più tempo del previsto per fare dell’Italia un Paese 5G”. Gianluca Landolina, chairman e ceo di Cellnex Italia non ha dubbi sulla questione.
Landolina, eppure i primi servizi sono partiti e l’Italia è stata pioniera nelle sperimentazioni e nelle use case.
Siamo stati bravi a testare. Ma passare alla realtà è un’altra cosa. E anche i servizi annunciati sono ancora a un livello ‘sperimentale’ considerato che la rete 5G è ancora tutta da fare. Qui non siamo di fronte a un’evoluzione dell’infrastruttura esistente, come è stato per gli altri standard, ma a una vera e propria disruption. Stando all’attuale roadmap l’Italia dovrà aspettare il 2021 per entrare davvero nell’ era 5G. E solo quando si raggiugerà almeno il 30% di customer base attiva allora si potrà iniziare a parlare di utilizzo massivo. Ma in questo caso si andrà oltre il 2021. A meno che non ci sia una sterzata netta sul fronte dei permessi e dei limiti delle emissioni elettromagnetiche. Ma così come stanno le cose i problemi che già c’erano si amplificheranno su entrambi i fronti.
Perché?
Partiamo dalle caratteristiche delle antenne: ci sono le macro e le micro antenne. E quelle macro, che saranno necessarie variano dai 50 a 90 kg di peso. I pali esistenti e le “location” utilizzate per il 4G sono già semi-sature. Ciò vuol dire che bisognerà cercare nuovi spazi. Ed è qui che prolifereranno i problemi con le autorizzazioni in particolare nei centri urbani densamente popolati. Questo tema farà il paio con quello dei limiti delle emissioni elettromagnetiche. L’Italia ha limiti severissimi: 6 volt metro contro i 90 della Germania uno dei paesi più virtuosi per capacità di sviluppo economico. Più stringenti sono i limiti più antenne ci vogliono, perché per garantire segnale e servizi bisognerà utilizzarne molte di più per rispettare la norma. Quindi capisce bene che più antenne fa rima con più autorizzazioni necessarie. Ed ecco che il traguardo si allontana. Per non parlare poi del paradosso legato all’impatto ambientale: più antenne, meno ecosostenibilità.
Tutto ciò impatta sul vostro business?
Cellnex non solo non è impattata dal tema elettrosmog ma anzi con gli attuali limiti è avvantaggiata, visto che le telco hanno bisogno di più infrastrutture. Ma credo che sia necessario non guardare agli interessi singoli, ma piuttosto allo sviluppo del Paese. Il nostro non è un business di breve periodo, ragioniamo in ottica industriale ventennale. E con i contratti che abbiamo ad oggi offriamo già una garanzia di business sostenibile per almeno i prossimi 20 anni. L’esigenza e la domanda di antenne che deriverà dal 5G non possono che rappresentare una garanzia sul lungo periodo.
Continuerete a fare acquisizioni?
Una serie di operazioni ancora sostenibili per noi. Non è una strategia “muscolare” ma puntiamo a traguardare il momentum del 5G in chiave di maggiore e migliore sviluppo possibile nel contesto italiano. Ribadisco maggiore e migliore: entrambi gli elementi.
Anche in Italia volete acquisire ancora?
Mai dire mai.
Cosa ne pensa dei “matrimoni” fra telco e tower company?
Penso che un’azienda non cresce solo perché si unisce con un’altra. Non è scontato. Mi spiego: il multiplo di valutazione di una telco è in media di 6 volte l’ebitda. Con una tower company si passa in automatico a 22. Ma il multiplo alto delle tower company non esiste di per sé, si basa infatti sulla garanzia, nei confronti dell’investitore, di creare business sostenibile nel tempo. È da qui che deriva il multiplo non dal “cambio abito” tout court. E peraltro questi “matrimoni” sono spesso basati sull’idea di vendere successivamente l’asset a soggetti strutturati in grado di sostenere il business. Sono a volte operazioni finanziarie dunque e non industriali; anche in tali casi, però, possono diventare industriali e quindi acquisire sostenibilità nel lungo periodo con il coinvolgimento di un operatore di torri strutturato.
Quanto state investendo in Italia?
Gli investimenti infrastrutturali in Italia da quando siamo partiti, ossia dal 2015 con l’acquisizione delle torri di Wind (operazione Galata, ndr), e calcolando l’operazione Iliad – e quindi l’acquisizione dei 2200 siti per 600 milioni – e includendo anche quelli stimati fino a fine 2019, ammontano complessivamente a 2 miliardi di euro.
In cosa consistono gli investimenti, al netto delle acquisizioni?
Mettiamo in campo ingenti risorse per la gestione degli impianti e la loro massima qualità. Ad esempio abbiamo lanciato un progetto da 100 milioni di euro che prevedere la sostituzione di un importante numero pali che secondo i nostri canoni non sono robusti abbastanza per garantire la performance migliore di qui a 20 anni. Non si tratta di infrastrutture obsolete, anzi. Ma ne vogliamo di migliori. E poi investiamo per arrivare in anticipo sulla concorrenza su aree che consideriamo strategiche. Il nostro è sempre un business di lungo periodo.
Il tema dell’ecosostenibilità ambientale sta diventando sempre più stringente. Come affrontate questa partita?
In tema di certificazioni siamo all’avanguardia da sempre su tutti i fronti, da quelle sulla sicurezza del luogo di lavoro a quelle per la soddisfazione del cliente fino, ovviamente, a quelle sul benessere e la qualità della vita e al rispetto dell’ambiente. In questo processo siamo stati efficacemente supportati da Consulnet Italia, Rödl & Partner e Wellnet.