BANDA LARGA MOBILE

5G, Pogorel: “Asta frequenze, gli incassi non penalizzino telco e Tv”

Il docente alla Télécom ParisTech, ex consulente del Piano Caio: “La riassegnazione dello spettro radio segua criteri in grado di riequilibrare i mercati. Incentive auction strumento indicato. L’esigenza di far cassa per i governi non impoverisca l’industria”

Pubblicato il 03 Apr 2017

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Sulle frequenze si gioca una grossa partita per le Tlc mobili. Ma anche per i broadcaster. Per questo serve trovare un punto d’equilibrio in grado non solo di non “dissanguare” i settori, ma anzi di spingerli. Il modello d’asta a cui l’Italia potrebbe ispirarsi è l’”incentive auction utilizzato negli Usa. Meccanismo complicato, ma in grado di ottimizzare l’utilizzo dello spettro radio secondo meccanismi di mercato”. Lo dice Gérard Pogorel, Professore di Economia e Management Emeritus alla Télécom ParisTech e a suo tempo consulente del governo italiano per il “piano Caio” sulla banda larga”.

Professor Pogorel, è davvero tanto importante il 5G per l’Europa?

Sì, e non solo perché consente di supportare un’offerta di servizi sempre più potenti per i consumatori, ma anche perché sarà un supporto fondamentale per il futuro delle industrie e dei servizi, penso anche a quelli bancari e assicurativi. Le tecnologie “incluse” nel mondo 5G saranno decisive per la trasformazione dell’industria automobilistica, il manifatturiero, la gestione dell’energia: tutte elementi cardini per l’Europa.

Che ruolo vede per l’Italia?

La struttura industriale italiana è forte, più sviluppata di quella francese che negli ultimi 10 anni ha scontato grosse crisi: molte aziende sparite, o passate sotto il controllo di altri Paesi, pensiamo alla Alstom passata in parte a General Electric. O, nell’alluminio, alla Pechinel passata sotto il controllo canadese, così come alla controversa vicenda dei cantieri Saint Nazaire. Ci sono anche casi molto positivi, come Peugeot o Renault, ma diciamo che la situazione è luci e ombre. In questo senso il panorama italiano è migliore. Il problema è europeo.

Quale problema ha l’Europa?

La concorrenza in un mercato frammentato. Negli ultimi 20 anni si è utilizzato lo strumento antitrust senza intanto creare veramente un mercato unico per le comunicazioni. L’effetto è stata una forte pressione sulle tariffe fisse e mobili, piuttosto basse se paragonate con quelle Usa. Quindi: tariffa bassa, concorrenza forte, mercato frammentato. Risultato: oltre 100 operatori di comunicazione, e solo pochi con capacità di investimento e creazione di servizi a livello europeo paragonabile a quella degli operatori americani, cinesi, coreani o giapponesi. Uno scenario contraddittorio, non coerente con obiettivi di crescita.

Frammentazione e concorrenza dunque.

C’è un altro elemento da tener presente ed è quello del livello di fee per i diritti d’uso. Il combinato tariffa- livello di investimenti-gestione fee è determinante. Ci sono modelli positivi, come nel caso di tariffe alte, investimenti alti, diritti d’uso alti: è il modello americano con cui gli operatori hanno speso molto per l’uso dello spettro, stanno investendo molto sul 4G e ora su 5G, ma le tariffe sono alte. La pressione concorrenziale europea fa sì che questo triangolo non funzioni, da noi, adottiamo alte fee per l’uso dello spettro e tariffe basse: la capacità d’investimento è calata. Si tratta di un modello non coerente in un mercato in cui l’accesso a Internet costa meno di una fetta di pizza senza formaggio. Non è sostenibile.

Allora frequenze gratis?

Come ha indicato il sottosegretario Giacomelli serve riequilibrare le tariffe per l’uso delle risorse spettrali che sono un bene pubblico, con la necessità per gli operatori di investire. Credo che sarebbe necessario dunque rivedere i criteri di assegnazione.

L’Italia può permettersi questo?

Ovvio che il punto di vista dei ministri delle finanze sia diverso, non solo in Italia ma in tutta Europa. Ma il sistema economico deve poter contare su un’industria che non sia “amputata” già dall’inizio per diritti d’uso dello spettro troppo alti. Quindi vanno ridisegnate le procedure d’assegnazione: conservando i diritti d’uso ma preservando le capacità d’investimento operatori. In questi anni i nostri governi hanno perseguito obiettivi non correlati: massimizzare da una parte e piangere dall’altra perché gli operatori non investono abbastanza. Non è coerente. L’idea che più un operatore paga per frequenze più dimostra la sua motivazione a investire è una sciocchezza, non succede così. Vanno riallineati questi due obiettivi.

Ma la Francia ha incassato 2,8 miliardi con l’asta frequenze.

Se fossi ministro delle Finanze farei anch’io così! Ma i ministeri devono coordinarsi per avere una prospettiva di medio-lungo termine. Le industrie vanno incoraggiate.

In Italia però le frequenze da mettere all’asta sono assegnate, come fare?

L’uso delle frequenze deve poter essere pianificato per 15-20 anni. Si potrebbero poi considerare modelli di asta come l’incentive auction che gli Usa stanno adottando per recuperare frequenze “televisive”. Si basa sul prezzo a cui l’operatore Tv è disposto a rilasciare le frequenze spostandosi su altre piattaforme, e sull’asta che viene fatta per quelle frequenze. Questo consente un refarming secondo un meccanismo di mercato. L’Italia potrebbe adottarlo per prima, in Europa. C’è poi la necessità imperativa di preservare la libertà editoriali degli operatori Tv. Serve ridare capacità d’iniziativa sia agli operatori Tlc che ai broadcaster in un mercato europeo frammentato hanno difficoltà a competere con gli over the top, completamente integrati a livello internazionale.

Frequenze rilasciate “a tappe” con gare diverse?

No, farei gare “one-stop” che includono “tutto quello che serve” per offrire un servizio completo in maniera efficiente.

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