Huawei è partner di Wind Tre, Vodafone e Tim su una quota più o meno di quasi un terzo delle reti. È partner tecnologico di Tim anche per la rete fissa. E collabora, per le maggiori città italiane, con Open Fiber. Sugli smartphone ha, nel nostro paese, una quota di mercato di circa il 30%. Senza contare le collaborazioni con Istituzioni e società pubbliche, come Leonardo o Poste Italiane. Huawei, come Zte, è in partnership con gli operatori sui progetti sperimentali 5G.Zte peraltro ha recentemente annunciato la creazione di un “Security Lab” in Italia, con altri partner mentre Huawei ha già a Pula, in Sardegna, un centro di innovazione in collaborazione con la Regione. Bastano questi elementi, peraltro parziali e un po’ alla rinfusa, per capire che in termini di mercato le due grandi realtà cinesi, Huawei e Zte, sono riferimenti da cui è difficile prescindere. E non da ora.
La riflessione da fare è dunque su una dimensione diversa dal mercato e riguarda il ruolo che deve giocare lo Stato e quale strategia intenda perseguire il governo nello scenario internazionale. Ho detto più volte, e rimango di questa idea, che la privatizzazione di Telecom fu un errore. In particolare lo è stato la privatizzazione di una infrastruttura strategica come la rete. Perché solo lo Stato garantisce investimenti adeguati per quella che è condizione abilitante al mercato, perché lo Stato garantisce effettiva parità di accesso e infine per motivi di sicurezza e per una piena garanzia di tutti.
Ci sono le condizioni per correggere questa impostazione? È utile farlo? Per rispondere a queste domande non basta una riflessione in ottica nazionale. Serve, servirebbe, almeno un approccio europeo.
Purtroppo però, quando parliamo di reti ultraveloci, della governance di Internet, di 5G, evocare una comune posizione europea è ancora quasi una chimera. Le strategie dei grandi paesi europei, sia in termini industriali che politici, differiscono notevolmente e talvolta addirittura si contrappongono. Negli anni in cui abbiamo avuto la responsabilità del governo, ed in particolare durante la presidenza del consiglio europeo, abbiamo assunto tutte le iniziative possibili per favorire una sintesi a livello europeo e l’apertura di un dialogo privilegiato con gli Stati Uniti.
Abbiamo provato ad incentivare l’unificazione di politiche, standard, regole dei paesi europei per arrivare almeno ad un unico mercato digitale, abbiamo provato a costruire una comune proposta europea per una nuova governance di Internet da proporre agli Usa, abbiamo lavorato ad un dialogo efficace tra Usa e Europa su privacy, trattamento dati, ruolo delle authority, abbiamo provato a costruire almeno una collaborazione effettiva, concreta non limitata ai principi generali, tra i paesi europei sulla cybersecurity. Abbiamo fatto passi avanti in questi anni ma molti di questi dossier sono lontani da una conclusione soddisfacente.
Rimango convinto che su questi temi, una visione comune sulla base dei valori occidentali di libertà personale, riservatezza, limiti dei poteri del governo, sia la base indispensabile per un confronto con altre grandi realtà mondiali come Cina e Russia. Senza peraltro mettere la disponibilità al dialogo registrata da queste due realtà sullo stesso piano perché si farebbe torto alla Cina.
Certo, l’approccio della presidenza Trump e le difficoltà politiche che attraversano molti paesi europei hanno ulteriormente complicato la ricerca di posizioni condivise. E tuttavia non vedo quale altra diversa strategia possa risultare più convincente. Mi sembra che Francia e Germania abbiano fatto una riflessione significativa sugli errori compiuti e le occasioni perse dall’Europa in questi anni. Su quanto paghiamo oggi eccessive lentezze e sterili contrapposizioni. E abbiano deciso di procedere insieme su questo e su altri punti nevralgici.
L’Italia deve recuperare, su questi temi e non solo, una visione comune con Parigi e Berlino. Nel proprio interesse e nell’interesse dell’Europa. Sarebbe bello, significativo e ambizioso riprendere il filo di una grande suggestione che è spesso affiorata negli anni passati: realizzare con Francia e Germania una unica società della rete. Oggi potremmo declinare questo progetto sulla rete 5G e magari sul suo presupposto, la rete in fibra. Una rete europea, una sorta di moderna società del carbone e dell’acciaio tra i tre grandi paesi fondatori, un rinnovato patto per il presente e il futuro.
Ovviamente una società del genere dovrebbe essere pubblica o almeno a controllo pubblico con tutto quello che questo implica nel contesto nazionale. Potrebbe essere il primo passo per arrivare ad un concreto e condiviso lavoro tra i tre grandi paesi europei sui big data, sull’intelligenza artificiale, sulla blockchain, sulla sicurezza. L’embrione significativo di una reale dimensione europea, di una strategia che non declini l’Europa solo come un mercato ma anche e soprattutto come un soggetto politico.
Un soggetto forte e rappresentativo (anche in questa versione embrionale) in grado di avviare il confronto con gli Stati Uniti su privacy, trattamento dati, ruolo degli Ott, governance di Internet e di dare il via ad una sorta di costituente per arrivare ad un codice internazionale di diritto digitale. Addirittura riprendere l’obiettivo ambizioso del G7 di Tokyo quando sottoscrivemmo la proposta americana di un impegno comune per la diffusione globale di internet, come strumento di crescita e di sviluppo.
Riconosco che a tutto questo ragionamento, a questa impostazione che ho provato ad illustrare, si possono muovere molte obiezioni. Così come si può ridurre il tema della nuova via della seta e le ovvie implicazioni a pretesto per piccole baruffe di politica molto interna. Resta il fatto, per usare una nota espressione tecnica, che le chiacchiere stanno a zero: o si è in grado di elaborare e sostenere una strategia o si subiscono le strategie degli altri.