All’headquarter Qualcomm di La Jolla, a due passi da S. Diego, apparentemente tutto procede come prima: il solito via vai di tecnici, ingegneri, clienti e fornitori; il sole e il cielo blu che baciano con passione questa città della Southern California al confine col Messico; il frastuono insistente dei jet che vanno e vengono dalla vicina base della US Navy, la più grande sul fronte del Pacifico.
Eppure, un occhio allenato può rimarcare negli ultimi mesi un cambiamento nell’andirivieni di persone che animano l’Irwin M. Jacobs Hall, cuore dei numerosi building della “capitale” di Qualcomm, nata proprio qui una trentina di anni fa, nel luglio del 1985. In giro si vedono più avvocati del solito: arrivano da altre città Usa, Washington in primis, da Taiwan ma anche dall’Europa: da Berlino e Bruxelles in particolare. Questo affollamento di legali in un luogo solitamente dominio di ingegneri e tecnici informatici testimonia che il fronte giudiziario negli ultimi mesi si è fatto decisamente più caldo. Negli Usa, ma anche altrove.
Proprio la settimana scorsa, in una giornata di sole quasi estiva ha seminato il gelo la notizia che la Taiwan Fair Trade Commission (l’Antitrust taiwanese) ha condannato Qualcomm a pagare una multa di 773 milioni di dollari americani per pratiche commerciali abusive. A San Diego annunciano che faranno ricorso e sono convinti di poterlo vincere. 773 milioni di dollari sono una bella botta, ma l’azienda ha le spalle larghe quanto a liquidità: il bilancio 2016 la gratifica con un free cash flow di quasi 7 miliardi di dollari. Il timore vero è che la sentenza della TFTC rappresenti la classica ciliegia che tira tutte le altre.
La causa con Apple
La causa in corso con Apple è quella che desta le maggiori apprensioni e ha già influito negativamente sulle performance del titolo Qualcomm in un Nasdaq sempre a caccia di nuovi record all’insù. Cupertino ha accusato l’azienda di San Diego di usare il proprio dominio nei chip mobili (Intel, fortissima nei pc, è un parvenu nei telefonini) per strangolare i produttori di apparati imponendo prezzi di licensing eccessivi e pretestuosi.
Di conseguenza, Apple ha smesso d’un botto di riconoscere agli OEM (le aziende produttrici dei suoi telefonini) le royalties pretese da Qualcomm. Costoro, a cascata, non pagano più Qualcomm. Almeno fino a quando il Tribunale di San Diego (dove è approdata la causa) non avrà deciso, probabilmente nel 2018, chi abbia ragione.
Si tratta di una battaglia pesante e senza esclusione di colpi. Qualcomm si trova in una posizione abbastanza isolata. Con Apple si è schierata la potente Computer & Communications Industry Association che rappresenta nomi del calibro di Amazon, Google, Microsoft oltre al diretto concorrente Intel.
Le ripercussioni in Europa
Non mancano le ripercussioni in Europa, in particolare in Germania, dove Qualcomm, convinta delle proprie buone ragioni, è passata al contrattacco chiedendo ai tribunali di Monaco e Mannheim il blocco delle vendite degli iPhone in Germania, ritenendosi danneggiata dallo sfruttamento non retribuito di sue proprietà intellettuali. Analoga richiesta è stata presentata anche ai giudici americani. Una vittoria sul fronte tedesco, potrebbe rappresentare un precedente significativo anche per la causa Negli Usa.
La posta in gioco
La posta in gioco è grossa. Qualcomm ricava due terzi dei 23.6 miliardi di dollari di fatturato complessivo (nel 2016) dalla vendita di chip e un terzo (quasi 8 miliardi di dollari) dalle licenze. Una cifra importante legata a un business model rigidamente a due binari di ricavo: uno per la cessione dei chip veri e propri, l’altro per l’uso dei brevetti che quei chip sfruttano. Non sorprende che l’azienda si sia attirata addosso l’appellativo di “no license, no chip”, quasi a rimarcare un ricatto implicito nelle condizioni di vendita.
Si tratta, comunque, di un binomio fondamentale per gli equilibri economici di Qualcomm. La sospensione del pagamento delle licenze da parte di Apple (uno dei maggiori clienti di San Diego per gli iPhone ma anche per gli Apple watch, sinora estranei alla causa) ha determinato nei primi tre trimestri per la corporate un crollo degli utili del 40% e dei ricavi complessivi dell’11%. Particolarmente colpita, ovviamente, la divisione licenze, che ha visto il fatturato crollare di oltre il 40%. A novembre verranno resi noti i dati dell’intero fiscal year 2017, ma l’ultimo trimestre non potrà probabilmente che confermare quelli precedenti.
La difesa di San Diego
A San Diego difendono con ostinazione la loro politica di prezzo sostenendo che dentro un chip non ci sono soltanto sistemi standard a disposizione di tutti ma anche tantissimi brevetti dovuti a uno sforzo di ricerca immane, precipuo di Qualcomm: 47 miliardi di dollari di investimenti in R&D dalla fondazione di Qualcomm; una media del 20% dei ricavi annui spesi in R&D dal 2006. I risultati si sono tradotti nella leadership globale nei chip mobili ma anche in una micidiale sequela di brevetti registrati un po’ in tutto il mondo: quasi 50.000 granted patents, oltre 105.000 patent applications distribuiti su quasi 29.000 famiglie di brevetti.
Ad alcuni tutto ciò può apparire un’ossessione da brevettificio pigliatutto, ma a San Diego questa sequela di proprietà intellettuali è vissuta con grande orgoglio. Proprio all’ingresso dell’edificio principale della sede aziendale troneggia il ”Qualcomm patent wall”, un’enorme parete interamente ricoperta dai brevetti registrati sinora. Una celebrazione vigorosa di quello che è vissuto come il vero punto di forza della casa di San Diego: l’innovazione tecnologica. Tra le invenzioni Qualcomm sono sottolineate con compiacimento innovazioni quali il blocco del keypad per impendirne usi inavvertiti, la modalità aeroplano, l’assistenza Gps, il primo smartphone (per inciso rifiutato da Steve Jobs che all’inizio non ci credette), l’SC-FDMA che è la base per implementazioni fondamentali dell’Lte, la carrier aggregation che verrà sfruttata particolarmente dal 5G.
Proprio attorno a quel muro di brevetti fanno quadrato le difese nella causa con Apple. “È assurdo definirci un semplice chip maker come vorrebbe Apple – protestano a San Diego – Oggi il chip è un ecosistema ingegnerizzato, fatto di mille specifiche frutto di altrettanti sforzi di ricerca che vanno riconosciuti e valorizzati. È l’intero ecosistema che trae vantaggio dalla diffusione dell’innovazione attraverso un giusto riconoscimento del valore delle licenze, non solo il singolo produttore di telefonini. Ci sono molte applicazioni fruibili, rese possibili proprio da specifiche ricerche il cui valore va affermato anche attraverso prezzi differenti per differenti utilizzazioni. Ci pare una cosa molto fair, altro che abuso della nostra posizione di leadership. Noi vogliamo abilitare l’industria ad adottare la nostra tecnologia e a utilizzarla ampiamente: la nostra politica di licenze non mira a bloccare l’innovazione ma a consentire alle imprese di sfruttare le nostre innovazioni per le loro specifiche necessità”.
I due punti di vista
Se Apple punta sulla banalizzazione del chip, a San Diego se ne esalta dunque la personalità specifica dovuta a sforzi e costi di ricerca specifici per cui l’uso nelle diverse applicazioni va secondo Qualcomm riconosciuto al di là del semplice possesso dell’oggetto fisico. Anche quando si tratta di comunicazioni che secondo Apple sono invece standard basici? “La connettività un fatto banale? Uno standard comune? Non è vero niente – ci si sente rispondere a San Diego – La connettività richiede continui adeguamenti e sforzi costanti di miglioramento per i nuovi utilizzi. Lo ha riconosciuto lo stesso ceo di Apple, Tim Cook. Parlando in India, è stato costretto ad ammettere che la connettività aiuterà l’iPhone a diffondersi in quel Paese”.
Ma il timore, al di là di queste argomentazioni, è evidente: perdere il confronto con Apple potrebbe significare non soltanto un calo di utili e ricavi, ma anche un ridimensionamento negli investimenti in R&D con il rischio che il “patent wall” si arricchisca di nuovi brevetti ad un ritmo inferiore all’usuale, riducendo di conseguenza la distanza che oggi separa Qualcomm dai suoi competitor nel mercato dei chip mobili. “Tuttavia – ci dice un top manager di Qualcomm – una decisione del Tribunale per noi negativa non potrà certo distruggere il nostro business model. Semplicemente, dovremo cambiare alcune pratiche di licensing”.
Le strategie di crescita verso 5G e IoT
In attesa di cosa deciderà il giudice americano, sarebbe però sbagliato vedere Qualcomm in una posizione di stallo. Basta un giro anche breve alla sede di San Diego per rendersene conto. La vita continua. SI guarda avanti per mantenere la leadership dell’innovazione, in particolare nella connettività. Dopo i successi di CDMA, 4G e Lte ora l’obiettivo è di raggiungere la nuova terra promessa dell’era che si sta aprendo, dalle prospettive ancor più rigogliose di quelle passate: l’era del 5G.
Si tratta di una tecnologia – la consapevolezza che si respira a San Diego è palpabile – destinata a cambiare un intero ecosistema di imprese e di servizi, a destrutturare e ricomporre interi comparti industriali, a far tramontare vecchi business model, a vederne nascere di nuovi. “Noi per il 5G siamo pronti, decisamente più avanti dei nostri competitor: è dal 2006 che ci stiamo lavorando. Non si tratta più di collegare le persone come in passato, ora si tratta di connettere il mondo”, dicono orgogliosi alla Qualcomm. Con tre grandi filoni di soluzioni e servizi di connettività: ultrabroadband mobile, servizi mission critical (a partire dall’automotive settore in cui è in ballo, davanti alla Commissione Ue, la proposta di acquisizione di NXP Semiconductors), Internet of Things massivo.
Vista col cannocchiale del futuro, la causa con Apple appare a san Diego soprattutto un incidente di percorso, per quanti danni esso possa fare.