La guerra del commercio Usa-Cina è scattata. In vigore da oggi i dazi voluti dall’amministrazione Donald Trump sull’import di 818 beni – da componenti auto ad apparecchiature medicali, dall’aerospazio all’IT: misure del valore di 34 miliardi di dollari, prima tranche di un’azione preliminare da 50 miliardi. Immediata la contromossa di Pechino che annuncia tramite l’amministrazione Generale delle Dogane cinese noto di avere contro-dazi nei confronti degli Usa della stessa portata su più di 800 prodotti di importazione. Salvi in ogni caso gli smartphone, a cominciare dalla Apple che per assemblare i componenti utilizza le aziende cinesi.
Una guerra destinata a un’escalation, prevedono gli osservatori. Ma che potrebbe avere come obiettivo il dominio del “the next big thing”: il 5G. Che consentirà la costruzione di autostrade digitali ad altissime prestazioni e la conseguente abilitazione di Internet of things, auto smart, telechirurgia, sostenuta da miliardi di dispositivi connessi a Internet. Il 5G potrebbe essere la chiave per la strategia America First di Trump ma anche per l’ambizione cinese di detenere la leadership dell’intelligenza artificiale entro il 2030.
Aziende cinesi di apparati – ZTE e Huawei – e aziende europee come Nokia ed Ericsson sono lanciate in corsa così chipmaker statunitensi come Qualcomm e Intel. E’ qui, secondo Declan Ganley Ceo della technology company Rivada Networks, che si gioca la partita “e riguarda chi condurrà il gioco sul modello, l’architettura, l’agenda del 5G: chi vincerà avrà il controllo del ‘blue ocean’ della tecnologia (per Blue Ocean si intende un mercato con ancora zero o pochissima competizione, ndr). C’è in ballo un grande gioco strategico” e un mercato che si prevede possa valere nel 2035 12 trilioni di dollari.
Al momento secondo Ganley il modello attuale di aste con cui le frequenze adatte al 5G vengono assegnate alle telco è più funzionale al mercato cinese dove le reti maggiori sono sotto il controllo dello Stato che a quello americano dove i carrier sono in forte competizione. Le aste rischiano di “travolgere i loro profitti e quindi la loro capacità di investire in innovazione”.