In questi ultimi giorni il forte contrasto tra l’Antitrust, da un lato, e i giudici amministrativi e l’Agcom dall’altro, relativamente alla competenza a giudicare sulla liceità delle pratiche commerciali nel settore delle telecomunicazioni, in particolare nella pubblicità e nelle procedure di iscrizione per i cosiddetti servizi premium, si è esacerbato a “colpi” di provvedimenti di opposto segno a ritmo pressoché quotidiano, con evidenti conseguenze di disorientamento per gli operatori del settore. Se neppure è trascorsa una settimana dalle sentenze con le quali il Tar ha annullato due provvedimenti Antitrust dichiarando la competenza Agcom, l’Antitrust ha risposto deliberando un nuovo provvedimento sanzionatorio esplicitando le ragioni per le quali si ritiene competente ed aumentando, se possibile, la confusione in un intero settore economico.
Il vero e proprio conflitto tra poteri tra le due autorità nasce in realtà qualche anno fa, a seguito di una penetrante e poderosa attività sanzionatoria dell’Antitrust nel settore, i cui principi interpretativi possono così sintetizzarsi : per promuovere un servizio premium su internet o wap occorre che il banner di primo aggancio, quel riquadro pubblicitario, spesso intermittente, che tutti noi incontriamo navigando in rete, contenga tutte le informazioni rilevanti sul servizio, ad esempio se si tratta di un abbonamento, il prezzo omnicomprensivo, il link sui termini e le condizioni di utilizzo, e poco importa – per l’Antitrust – che tutto ciò sia riportato nelle c.d. pagine di atterraggio dopo averci cliccato sopra (le c.d. landing pages) e sia ben visibile prima che il consumatore si iscriva.
Quando si clicca su un banner, e pur non iscrivendosi immediatamente al servizio, per l’Antitrust l’effetto di sviamento del consumatore è ormai realizzato e perciò esso – se carente di informazioni essenziali – va in senso contrario al Codice del Consumo, principale normativa applicabile e di competenza dell’Antitrust medesima, è perciò “illecito”.
In secondo luogo in considerazione del fatto che i servizi premium sono attività i cui profitti sono divisi tra i creatori del servizio e gli operatori telefonici mobili, anche questi ultimi, in particolare coloro che non fungono da mero access provider, sono legalmente responsabili, a detta dell’Antitrust. Terzo: la pratica merita sanzioni pecuniarie particolarmente severe.
Oltre ad essere particolarmente severa, l’attività di accertamento dell’Antitrust è stata talmente massiva che le sole pratiche commerciali scorrette del settore telecomunicazioni hanno raggiunto nel triennio 2009-2012 oltre il 19 % di tutta l’attività istruttoria dell’Antitrust e, soprattutto, hanno subito un carico di oltre il 30% del totale delle sanzioni irrogate, pari a circa 34 milioni di euro.
Le critiche a questa impostazione sono state numerose e di diverso ordine e grado. Per quel che qui rileva, la più penetrante è stata certamente quella di aver ignorato la parallela attività dell’Agcom che sembrava anch’essa dotata del potere di giudicare le stesse pratiche in virtù non solo della normativa comunitaria e nazionale di settore, trasfusi nel Codice delle Comunicazioni Elettroniche e nella regolamentazione di dettaglio, ma anche in ragione di principi espressi nello stesso Codice del Consumo che sembrano chiaramente intenderlo come norma di applicazione residuale, applicabile cioè solo nel caso in cui non esistano regole speciali e complete volte alla tutela dei consumatori in particolari settori, secondo il principio giuridico della “specialità” (i.e. una norma speciale (il Codice delle Comunicazioni) prevale e si applica in luogo di una norma più generale (Codice del Consumo). Inoltre, il Codice delle Comunicazioni Elettroniche imponeva all’Agcom di giudicare le pratiche commerciali anche facendo ricorso a quanto espresso nel Codice del Consumo, nel caso in cui le norme di settore fossero parzialmente incomplete. Insomma, il settore delle telecomunicazioni sembrava dotato di un sistema di protezione dei consumatori / utenti adeguato ed autonomo, il cui enforcement era di esclusiva competenza dell’Agcom e senza spazio per un parallelo intervento dell’Antitrust.
Il contrasto di opinioni su quale fosse l’autorità competente a giudicare si è poi riflettuto nella giurisprudenza, con alterne e contraddittorie pronunce sia del Tar che del Consiglio di Stato. Il punto di svolta sembrava arrivato a maggio 2012, quando con cinque sentenze parallele, il Consiglio di Stato riunito in Adunanza Plenaria affermava chiaramente la competenza dell’Agcom a proteggere i consumatori nel settore delle telecomunicazioni. Di più, l’Adunanza chiariva che tutte le Autorità di settore, se dotate dalla normativa comunitaria e nazionale di adeguati strumenti normativi a tutela dei consumatori, potevano ben essere le sole autorità competenti a tutelarli. Ciò al fine di una maggiore razionalità del sistema e per scongiurare il pericolo di un doppio giudizio da parte di due autorità.
Ciononostante, invece di essere la conclusione della diatriba, la decisione dell’Adunanza Plenaria ha causato un vero e proprio scontro. Infatti, da un lato, non solo l’Antitrust ha continuato a emanare provvedimenti sanzionatori ritenendosi competente, ma anche il precedente Governo è intervenuto. Dapprima ha abrogato il riferimento contenuto nel Codice delle Comunicazioni Elettroniche che rinviava al Codice del Consumo, una norma di “chiusura” che rendeva la protezione del consumatore nel settore delle telco coerente e completo. Poi, con un intervento agostano, ha inserito una norma nel c.d. decreto sulla spending review che innalzava l’armamentario sanzionatorio a disposizione dell’Antitrust fino a 5 milioni di euro ed, infine, è intervenuto sulla competenza a giudicare con una norma molto ambigua, che solo formalmente sembra aderire alla pronuncia dell’Adunanza ma, di fatto, può interpretarsi anche nel senso di voler svuotare di significato tale pronuncia, riportando la competenza all’Antitrust per la pubblicità nel settore delle telecomunicazioni.
Dall’altro lato l’Agcom, ormai consolidata dalla decisione dell’Adunanza, ha sistematicamente rifiutato di fornire all’Antitrust il previsto parere sulle istruttorie da questa condotte e, trattenendo i fascicoli, ha aperto procedimenti sanzionatori paralleli a carico dei medesimi soggetti sui medesimi fatti.
In sostanza, le imprese si sono ritrovate fronteggiare lo stesso caso davanti a due autorità diverse. Una situazione paradossale e contraria al basilare principio del ne bis in idem che permea ogni stato di diritto. In più, l’Antitrust adotta dei criteri, sopra sintetizzati, molto formalistici e restrittivi, che non hanno paragone negli altri paesi europei, mentre l’Agcom adotta un approccio più pragmatico ed europeo attraverso la approvazione di codici di condotta. Non solo due autorità diverse per gli stessi fatti, dunque, ma anche due distinti apparati giuridici e financo due standard di liceità diversi.
In questi giorni, il Tar Lazio ha pubblicato le prime sentenze sui provvedimenti dell’Antitrust intervenuti dopo l’Adunanza Plenaria (ma prima dell’intervento legislativo) ed ha, coerentemente con la decisione del massimo organo di giustizia amministrativa, affermato la competenza esclusiva dell’Agcom, annullandoli. Parallelamente, l’Agcom sta lavorando con gli operatori alla adozione di un codice di condotta che dovrebbe fissare regole di comportamento idonee a risolvere il confine di liceità / illiceità dei comportamenti alla radice, in pieno spirito regolatorio. Tutto risolto? assolutamente no! L’Antitrust ha sanzionato (per ben 200.000 euro) un altro piccolo fornitore di service provider e, nella motivazione del provvedimento, ha “risposto” alle sentenze del Tar dando una interpretazione dell’intervento legislativo per la quale la competenza ritorna a sua favore.
Non v’è dubbio che il conflitto di competenza sarà portato nuovamente innanzi al Consiglio di Stato e, forse, innanzi alla Corte di Giustizia. Nel frattempo, il mercato è nel caos e gli operatori rischiano seriamente che diventi una prassi quella di essere giudicati due volte per i medesimi fatti.