Apple continua a snobbare il fisco italiano: nel 2013 le due controllate nel nostro Paese del colosso di Cupertino – 37 miliardi di dollari di profitti globali lo scorso anno e quasi 38 miliardi di revenues nella sola Europa – hanno versato poco meno di 8 milioni di euro di tasse nelle casse dello Stato italiano.
Le società con cui il produttore di iPhone e iPad opera nel nostro Paese sono Apple Italia e Apple Retail Italia. Le due società, come emerge dai rispettivi bilanci consultati dall’agenzia Ansa, hanno pagato al Fisco italiano nel 2013 rispettivamente 4,8 e 3,1 milioni di euro di tasse. Qualcosa in più del 2012 (quando Apple Retail aveva addirittura chiuso in rosso e maturato un credito fiscale) ma pur sempre pochissimo per una società che, solo con le vendite di una dozzina di Apple Store, nel 2013 ha fatturato nel nostro Paese quasi 300 milioni di euro, il 20% in più dell’esercizio precedente.
Nonostante l’impennata dei ricavi l’utile dei negozi si è fermato a poco meno di 2,5 milioni di euro, principalmente per i 220,7 milioni di costi pagati in Irlanda ad Apple Distribution International, fornitore dei prodotti Apple che riempiono gli scaffali degli store della Mela. È infatti a Dublino, dove ha ottenuto un’aliquota inferiore al 2%, che il produttore dell’iPhone concentra i suoi profitti.
La sede irlandese è il fulcro di una strategia fiscale condivisa da altri colossi hitech come Facebook e Google ed oggetto di critiche da anni anche da parte delle autorità americane: per evitare le cospicue tasse sui redditi corporate che vigono negli Usa (35% contro il 12,5% medio irlandese), molte aziende come Apple creano opportune sussidiarie all’estero, spesso in Irlanda, con a loro volta altre sussidiarie in Paesi caraibici e si trasferiscono l’un l’altra gli utili, eludendo le tasse del Paese d’origine o che è la sede effettiva dell’attività. La manovra fiscale in questione viene spesso definita “doppio irlandese” o “panino olandese”: si fanno interagire fra loro due società costituite in Irlanda, una delle quali è però residente fiscalmente offshore, per trasferire in Bermuda, Cayman, ecc. i profitti sullo sfruttamento dei diritti della proprietà intellettuale. Questo meccanismo può essere affinato grazie a un’ulteriore società del gruppo, registrata in Olanda. Le tech companies continuano poi a investire i loro soldi all’estero e il meccanismo permette di sfuggire alle tasse in patria. Se queste aziende dovessero decidere ora di riportare i loro fondi negli Usa, dovrebbero pagare una quantità di tasse esorbitante: il sito di Business Insider calcola oltre 24 miliardi di dollari per Microsoft e più di 18 miliardi per Apple.
Ovviamente Apple, Google, Amazon, eBay, Microsoft e le altre si sono sempre difese dalle accuse di elusione fiscale; in particolare il numero uno della Mela Tim Cook ha l’anno scorso dichiarato di fronte al Congresso americano che la Mela versa ogni centesimo che deve al Fisco e che la sua azienda non usa il sistema di trasferimento offshore dei proventi della proprietà intellettuale. In Italia però dallo scorso anno la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su Apple Italia, iscrivendo due manager della società nel registro degli indagati per dichiarazione fraudolenta dei redditi. Il sospetto è che tra il 2010 e il 2011 la società non abbia dichiarato oltre un miliardo di imponibile.
Intanto si sollevano le proteste del mondo politico: “In questi giorni apprendiamo che nel 2013 l’azienda Apple Italia avrebbe versato all’erario solo 8 milioni di euro, briciole in confronto ai ricavi che verrebbero legalmente distratte con un gioco di costi da corrispondere in Irlanda ad Apple Distribution International”, afferma Sergio Boccadutri, deputato di Sel, che prosegue: “Si tratta di una ‘elusione di fatto’, che in questo come in altri casi costa al nostro erario uno sproposito, in termini di mancati introiti e concorrenza sleale che le aziende italiane subiscono ogni giorno. Ho appena presentato un’interrogazione per sapere cosa intenda fare il Governo: il gioco dello struzzo e continuare a subire la furbizia legalizzata di Apple, che, vale la pena ricordarlo, è in buona compagnia con Google, Amazon etc., o prendere il toro per le corna e affrontare la questione una volta per tutte? Segnalo sommessamente che quando presentammo l’emendamento cosiddetto ‘webtax‘ eravamo mossi da motivazioni molto simili”.