“La cessione di Tim Brasil? Impensabile dato che è l’unico asset che crea valore per Telecom Italia, insieme alla rete di accesso”. Ne è convinto Michele Azzola segretario nazionale della Slc-Cgil secondo cui, se non si cambia marcia, l’ex incumbent è destinato al declino con effetti devastanti sulla tenuta occupazionale e e industriale del paese.
Azzola in questi giorni la stampa riporta indiscrezioni su un possibile spezzatino degli asset brasiliani. Lei che idea si è fatto?
Non credo ci siano le condizioni per cedere Tim Basil. Non dimentichiamo che è una società del gruppo che cresce nonostante le difficoltà del mercato globale. Telecom non avrebbe nessun interesse a vendere soprattutto in un momento in cui il mercato domestico è in sofferenza e il debito resta corposo.
A proposito di debito, Telecom Italia ha stoppato lo spin off. Questo potrebbe avere effetti negativi sulla situazione finanziaria del gruppo dato che la cessione della rete avrebbe potuto dare una boccata d’ossigeno e far ripartire gli investimenti. Come giudica la decisione del Cda?
È una decisone in linea con quello che Bernabè ha sempre detto. Ovvero “noi scorporiamo a fronte di un alleggerimento dei vincoli regolatori”, che poi altro non è che la linea del Berec. Per questo motivo non capisco lo stupore sollevato dalla decisione di bloccare il progetto all’indomani del taglio delle tariffe di unbundling deciso da Agcom. Semmai il problema è un altro e riguarda il valore industriale e finanziario dello scorporo che non è affatto chiaro e di cui non si è parlato abbastanza.
In che senso?
Partiamo da quello che è stato realizzato negli altri Paesi europei. In nessun Paese, all’atto della privatizzazione degli ex monopolisti statali, si è separata la rete dall’operatore telefonico e non lo si fatto per tre motivi. Il primo è che, considerato l’alto livello d’investimenti tecnologici necessario alle aziende per reggere il passo con l’evoluzione, si impone una dimensione d’impresa significativa. Infatti, solo imprese grandi che competono sui mercati internazionali e su più mercati sono in grado di far fronte all’enorme mole di investimenti. Operatori “provinciali” sarebbero destinati a depauperare gi asset tecnologici e andare verso un declino inevitabile. Non è un caso che negli Stati Uniti d’America su una popolazione di 260 milioni di abitanti ci siano solo quattro operatori telefonici.
La seconda ragione?
È di tipo commerciale. La rete in pancia all’ex monopolista determina una situazione per cui il possessore della rete ha tutto l’interesse a mantenere elevati i costi d’interconnessione (unbunding), gli operatori alternativi hanno tutto l’interesse ad abbassarli. In mezzo a questo conflitto d’interessi c’è un’agenzia pubblica – in Italia l’Agcom – che media e regola i prezzi tenendo conto degli interessi dei consumatori e della necessità di garantire ritorni che permettano di investire in implementazioni della rete. Sistema logico e chiaro che ha retto la prova in tutti i Paesi del mondo. Una società che gestisca solo la rete vedrebbe tutti gli operatori telefonici premere per abbassare i prezzi d’interconnessione in assenza di un conflitto d’interessi, con rischi notevoli per l’equilibrio complessivo. La terza ragione è che una società con all’interno tutti gli operatori coinvolti genererebbe conflitti d’interesse su dove investire, su quali prezzi d’interconnessione proporre, su come distribuire gli utili, portando, nei fatti, la società ad essere paralizzata.
Su versante finanziario cosa non la convince?
Non essendoci un nuovo quadro regolatorio e in attesa che l’Europa definisca gli standard dei costi d’interconnessione (che devono contenere i margini per una trasformazione della rete da rame a fibra) come si valuta la nuova società per prevedere l’ingresso di eventuali azionisti di minoranza? La valutazione ricorrente è data dal rapporto tra introiti e costi con un valore stimato della rete che oscilla tra gli otto e i 15 miliardi di euro. Valutazione che rischia di essere datata vista l’assenza delle prime due condizioni.
Infine c’è l’aspetto occupazionale…
E’ evidente che lo scorporo creerebbe una condizione per cui potrebbero essere messi a repentaglio migliaia di posti di lavoro. Questo perché la Società che resterebbe si troverebbe a competere sul mercato, oltre ai rischi di declino industriale sopradescritti, con competitor che avrebbero meno della metà dei dipendenti che resterebbero in Telecom. Va da se che una situazione tale non reggerebbe che pochi mesi. Analoga sorte, anche se con tempi più lunghi, per il personale che dovrebbe entrare nella società della rete, secondo Telecom 21.000. Già questo numero è esagerato perché quota parte di quelle unità lavora, in un sistema integrato, anche per la rete che resterebbe in pancia a Telecom.
Quindi non giudica negativamente lo stop al progetto?
La questione è più complessa del dibattito scorporo sì scorporo no. Oggi ci troviamo a dover pagare il prezzo di scelte sbagliate che si sono realizzate quando si decise di privatizzare l’azienda Telecom. Un azionariato diffuso, sulla base di quanto fatto dagli altri Paesi europei avrebbe evitato il primo acquisto a debito e la seconda scalata a debito, che oggi lasciano in eredità oltre trentasette miliardi di debiti, con depauperamento patrimoniale e la vendita di quasi tutte le partecipazioni azionarie. Ciò ha portato Telecom, che era il 5 operatore mondiale, a scendere nella graduatoria di decine di posizioni. Oggi possiamo mettere in discussione gli errori commessi nel passato, ripensando a un ruolo strategico per una delle ultime grosse aziende nazionali in grado di competere sui mercati mondiali, o mettere una pezza alle scelte sbagliate perseverando su modelli fallimentari.
L'INTERVISTA
Azzola: “Stop a scorporo, per Telecom occasione per ripensare strategie”
Il segretario nazionale della Slc-Cgil: “La decisione di bloccare il progetto è in linea con le richieste di Bernabè di allentare le regole”. E rilancia: “Bisogna ricominciare a fare politica industriale”
Pubblicato il 18 Lug 2013
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