I fondi europei destinati nel prossimo futuro allo sviluppo delle reti di banda larga potrebbero andare incontro a una robusta cura dimagrante. L’indiscrezione è piovuta come una doccia gelata da Nicosia, dove il 30 agosto scorso i ministri degli affari comunitari dei 27 si erano dati convegno per un round informale di negoziati sul bilancio Ue per il periodo 2014-2020. In una nota circolata dalla presidenza di turno cipriota a ridosso del summit, si legge che gli impegni di spesa per le telecomunicazioni previsti dalla Connecting Europe Facility – il pacchetto di investimenti infrastrutturali presentato un anno fa dalla Commissione – “hanno ricevuto meno supporto dagli stati membri che i capitoli relativi a trasporti ed energia”. E pertanto “la taglia e il peso dato ai tre pilastri del piano devono essere riconsiderati”. Fuor di burocratese, significa che il grosso dei 9,2 miliardi di euro (su circa 50) promessi nelle maglie della prossima cornice finanziaria comunitaria all’espansione di banda larga e network di nuova generazione potrebbe essere dirottato verso gli altri due citati settori strategici.
La fuga di notizie ha immediatamente innescato la reazione tonitruante del titolare europeo alla Società dell’Informazione Neelie Kroes. Ai microfoni del Wall Street Journal, la commissaria olandese ha spiegato che, qualora ratificata, la decisione avrebbe un impatto rovinoso sull’economia europea. L’equazione è cristallina: “se si tagliano gli investimenti sulla banda si azzoppano le prospettive di crescita”. L’altolà della Kroes non risparmia una punta di velenoso sarcasmo: “Alcuni politici pensano che la banda larga non è sexy perché non si può vedere. Beh, lasciatemi dire che la recessione è ancor meno sexy. Non abbiamo bisogno di altri aeroporti vuoti”.
I 27 sono avvisati. Perché c’è da scommettere che nelle settimane a venire l’Esecutivo di Bruxelles ordirà un’operazione di lobbying in pieno stile militare per stoppare il possibile colpo di mano dei paesi membri. Come è chiaro che neppure l’industria resterà a braccia a conserte. Lo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, il tono di grande costernazione trapelato dalle fila di Etno poco prima del vertice di Nicosia. Il direttore della federazione che raccoglie il fronte degli incumbent delle Tlc, Daniel Pataki, ha infatti avvertito che “la riduzione dei fondi mette seriamente a rischio l’efficacia del piano infrastrutturale e limiterebbe il suo impatto sull’economia dell’Ue nel suo complesso”. In altre parole, il messaggio recapitato dal settore privato è che la quota d’investimenti per le reti di telecomunicazione fissata nella bozza della Connecting Europe Facility “non s‘ha da toccare”.
Una richiesta legittima. Perché meno finanziamenti pubblici sul piatto minacciano direttamente gli obiettivi scodellati dall’Agenda Digitale Europea. In particolar modo, l’ambizione di dischiudere, di qui al 2013, i confort della banda larga a tutti i cittadini europei. Senza contare i rischi che incombono sull’altro traguardo di lungo corso cavalcato dalla Commissione: portare le reti superveloci e di nuove generazione nelle case di almeno duecento milioni di cittadini Ue entro e non oltre il 2020. Impresa quest’ultima che esige uno sforzo titanico da parte dell’industria, quantificato in svariate decine di miliardi di euro da sommare ai 7 miliardi originariamente previsti dalla stessa Connecting Europe Facility. E poco importa che, come ripete in ogni dove Neelie Kroes, il conseguimento dell’Agenda Digitale Europea potrebbe trainare l’economia Ue verso l’alto di più di un punto percentuale, creando 2,6 posti di lavoro per ognuno perso. Il Consiglio europeo del prossimo ottobre, che dovrebbe cominciare a suggellare le travagliate trattive per il bilancio comunitario post-2013, potrebbe chiudere la vertenza nel peggiore dei modi.