L'INTERVISTA

Rete unica Tlc, Vatalaro: “Coinvestimento è la soluzione per il Paese e anche per le telco”

Il docente dell’Università di Tor Vergata, fra i massimi esperti di Tlc in Italia, interviene sul tema della newco e si appella al Governo affinché “non si ricommettano gli errori fatti in questi anni con i bandi pubblici”. “Serve un audit tecnico-economico indipendente prima di intervenire nelle aree grigie”

Pubblicato il 22 Feb 2021

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Rete unica Tlc e piano aree grigie. Sono queste le due questioni calde su cui bisognerà trovare la quadra e soprattutto una soluzione vantaggiosa per il Paese affinché da un lato si spingano gli investimenti e l’infrastrutturazione in banda ultralarga e dall’altro si consenta alle telco di recuperare competitività e di non finire schiacciate dalla crisi, già sotto gli occhi di tutti in tempi pre-Covid e ora esacerbata dagli impatti della pandemia. “La confusione è totale e si stanno confondendo le acque, senza alcun vantaggio sul fronte operativo”, dice Vatalaro a CorCom.

Professor Vatalaro, partiamo dalla rete unica di Tlc, il progetto Tim-Open Fiber. Lo scontro fra le parti si è fatto acceso e le posizioni sono divergenti anche a livello di opinion leader e decisioni politici. Qual è la sua visione?

Sulla cosiddetta rete unica si è fatta e si sta facendo confusione. È un’operazione di confluenza di due aziende, di cui una, Open Fiber, è indietro nelle aree bianche e sta contemporaneamente realizzando reti nelle aree nere dove le reti già ci sono. Il valore aggiunto dell’infrastruttura Open Fiber è purtroppo modesto: sicuramente ha valore competitivo nelle aree nere con indubbio vantaggio sui prezzi, ma non sul fronte dell’infrastrutturazione del Paese. Quel che bisogna domandarsi è: la questione dei prezzi è una priorità per l’Italia? Il Desi parla chiaro: siamo già fra i primi paesi in Europa e in Occidente per prezzi. Abbiamo dunque bisogno di ulteriori livelli concorrenza? Non credo proprio. E peraltro la rete non sarà unica: non ci sono solo Tim e Open Fiber, ma decine di altri operatori sul mercato, dunque la concorrenza, anche infrastrutturale, in Italia esiste ed esiterà; parlare di rete unica è improprio.

C’è però chi parla di possibili problemi con l’antitrust europeo

Staremo a vedere, per ora correttamente la Commissione Ue non si esprime su un progetto non pienamente definito e non ancora notificato. Ribadisco, comunque, che a mio parere, una volta che sarà esaminato nel dettaglio l’impatto sui livelli competitivi, si scoprirà che è modesto e l’operazione di merger dovrebbe essere approvata.

Eppure gli Olo non si sono detti poi così favorevoli al progetto.

 Non c’è dubbio che per gli Olo maggiori alternative d’acquisto  producono vantaggio sulla contrattazione. È fuori discussione la convenienza aziendale però dobbiamo liberarci da questi ragionamenti aziendalistici in una fase come questa. Il problema va analizzato da un’altra prospettiva: si rischia un Paese in stallo. E peraltro i dati Agcom certificano una situazione di mercato delle Tlc di grade sofferenza: i bilanci delle telco evidenziano sempre meno ricavi e sempre meno margini, che in concreto si traducono inevitabilmente in minori investimenti. Vogliamo invertire questa situazione che è un unicum in Italia? Nel settore dell’energia, ad esempio, e più in generale nei servizi pubblici non c’è questa situazione, anzi. Eppure le Tlc sono dinamiche. Ma troppe regole, concorrenza spietata e decisioni improprie sul fronte antitrust hanno generato una guerra fra poveri. È evidente dunque che il co-investimento infrastrutturale è una soluzione intelligente, consente di dimezzare dei costi e di competere sui servizi, a beneficio del conto economico degli operatori e degli investimenti che sono chiamati a fare. Il Covid ha spinto l’interesse dei cittadini a investire nel settore dei servizi digitali e quindi di conseguenza c’è da aspettarsi un ulteriore aumento della domanda. È necessario dunque un riassetto del sistema delle tlc che sia in grado di rispondere alla rinnovata domanda. È giusto guardare al medio lungo termine ma bisogna anche guardare al breve. Il ‘Giga subito’ non ciò che serve oggi al Paese. Al Giga ci si arriverà, ci vuole pianificazione seria che preveda crescita e capacità di evoluzione delle reti tale per cui nel 2025 ci saranno Vhcn, ma nel frattempo a chi ha bisogno di una migliore connettività bisogna portarla.

Dunque la newco va fatta.

Da un punto di vista operativo fare la newco è opportuno: le scelte renziane del 2016 non hanno portato gli esiti sperati e ora il Ministero dell’Economia si trova a dover gestire il dossier Open Fiber e a individuare una soluzione. Vero è che Tim a suo tempo non si interessò alle aree bianche, un errore che innescò l’operazione Open Fiber. Ed è altrettanto vero che lo Stato a suo tempo non incentivò la realizzazione di reti per colmare il gap nelle cosiddette ‘aree bianche a completamento’ inserite impropriamente nel piano aree bianche. La scelta fu ideologica, non razionale. E adesso non sappiamo più neanche quante siano le aree bianche. E con il prossimo bando per le aree grigie rischiamo uno sperpero di denaro pubblico inaccettabile.

In che senso non si sa quali siano le aree bianche?

È dal 2015 che non si fa una mappatura. Quando si fece il Piano Bul nel 2016 fu presa una decisione poco meditata e si cambiò la logica della definizione delle aree. Prima venivano definite in accordo con le Raccomandazioni del Berec (la ex Erg): le aree bianche, grigie e nere erano la risultante della base di comuni o di aree di centrale dell’operatore incumbent o rilevante. Le aree in Italia a suo tempo erano circa 10mila e improvvisamente sono balzate a quasi 100mila, per l’esattezza 94.645. Questa frammentazione ha determinato il fatto che le aree bianche le hanno trovate in comprensori, condomini, zone molto limitate, accorpando le aree Istat. Il tutto computando anche le grandi città. Le aree bianche sono 83.017, di fatto l’Italia è diventata al 95% un Paese ‘bianco’. Le pare plausibile? Questa decisione, che puntava a estrarre chirurgicamente le aree e a metterle in un unico calderone da affidare in concessione, è stata deleteria. Il problema di partenza sono stati dunque i criteri. L’altro è stato quello di individuare aree bianche con infrastrutture allo 0% e altre “a completamento”: queste ultime sono quelle in cui gli operatori si impegnavano a infrastrutturare meno del 100% e stiamo parlando di 32.228 aree. Se si considerano quelle con infrastrutture dichiarate almeno al 75% si scende a 16.870, alla metà. Ciò vuol dire che in un unico calderone ci sono aree bianche di varia natura. Insomma, per sintetizzare, il Piano Bul è stato fatto sulla base di criteri sbagliati e l’obiettivo che ci si era posti era utopico, al di là dei ritardi di Open Fiber. Si poteva invece optare per incentivi in quelle aree coperte al 75% dagli operatori scomputandole dal piano e dalla concessione pubblica. E ora non sappiamo nemmeno a che punto siamo anche se la normativa europea richiede comunque di fare le analisi di mercato. Senza contare che in questi anni molti operatori hanno portato infrastrutture nelle aree bianche, si pensi a Linkem ed Eolo. E comunque preoccupa il cambiamento del piano aree bianche con riconversione di circa mille comuni Ftth in Fwa a cui fa seguito persino la previsione che l’impiego della tecnologia radio aumenterà molto, connettendo in prospettiva oltre il 28% dei civici in aree grigie con tecnologia Fwa, senz’alto meno performante delle tecnologie cablate. Dunque è arrivato il momento di fare il punto della situazione prima di procedere con le aree grigie.

E come si fa a fare questo punto?

Si deve fare un audit perché se non si fanno emergere le difficoltà come si fa a lanciare un altro piano, stimato fra i 3 e i 4 miliardi riproponendo lo stesso modello a investimento diretto con gara in concessione? Senza voler fare polemiche il Piano Bul si è rivelato un insuccesso,nell’impostazione e nell’esecuzione. Sono stati commessi errori, ma il tema non è fare la caccia ai colpevoli quanto evitare di rifare gli stessi errori. Quindi prima di tutto bisogna rifare l’analisi di mercato nella aree bianche per capire a che punto siamo, anche tenendo conto degli interventi recenti fatti sull’onda del Covid. La situazione concorrenziale è completamente mutata.  E poi, visto che le scelte fatte all’epoca si sono rivelate un insuccesso come fa Infratel senza un’analisi critica dello stato di fatti a procedere con un nuovo bando? Si sono sottovalutate le difficoltà nel portare la fibra nelle case italiane senza utilizzare le infrastrutture esistenti e si è trattata l’Italia come paese del terzo mondo. Ma le infrastrutture sono ben più della fibra: oltre al rame, ci sono camerette, palificazioni, canalizzazioni ecc. Siamo pieni di queste infrastrutture fatte nel periodo del monopolio prima del 1995. E si continua invece a procedere costruendo tutto ex novo e continuando a fare errori.

Quindi il piano aree grigie va rivisto?

Si intende procedere, previa deliberazione del Cobul e relativo decreto ministeriale di affidamento, alla realizzazione con aggiudicazione di uno o più bandi di gara. Nonostante i forti ritardi di questi tre anni, ci si affida dunque alla stessa modalità. E si chiedono anche risorse aggiuntive: quelle previste dal Pnrr sono 3,091 milioni e si sono chiesti ora 3,640 milioni. Se andiamo avanti così, con le stesse modalità nel 2035 staremo ancora a parlare del Piano Bul. Quindi ribadisco: serve un audit serio e indipendente con personalità di alto profilo, un audit tecnico e economico su quello che è stato fatto per capire cosa c’è di buono e cosa no. E solo con risultati alla mano si potrà decidere la migliore modalità per i nuovi investimenti. Ma il modello diretto in concessione non è adatto all’Italia, il piano aree bianche lo ha già dimostrato.

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