“Buone intenzioni sulla banda ultralarga, ora aspettiamo le azioni concrete”. È lapidario il commento di Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docente della Bocconi, sul piano ultrabroadband licenziato dal governo.
Finalmente è stata messa nero su bianco una strategia precisa per fare l’Italia digitale. Cosa non la convince?
Guardi, in realtà le linee guida – perché di questo si tratta, non di provvedimenti specifici – contengono due elementi positivi. Il primo riguarda il rispetto del principio di neutralità tecnologica che lascia libera scelta agli operatori sul sistema dell’offerta. Rispetto all’infrastrutturazione del Paese si adotta, dunque, un modello liberale e non statalista che accantona l’idea di uno spegnimento obbligato del rame. Ma ora voglio vedere azioni concrete.
Il governo di Matteo Renzi prevede di mettere sul tavolo 6 miliardi. Non bastano?
Bisogna vedere. Per ora ci sono solo delle “promettenti” slide. Per dare gli 80 euro in busta paga si sono stanziati subito 10 miliardi; invece per sviluppare le reti ultraveloci, che avrebbero impatti positivi dirompenti sulla produttività del sistema Paese, vedo solo buone intenzioni. Riassunte in poche slide, appunto.
Aveva detto che gli elementi positivi del piano sono due. Il primo è la neutralità tecnologica, il secondo?
Il governo sembra aver finalmente capito che non spetta allo Stato fare le infrastrutture, ma che ci deve essere un impegno del pubblico a favorire e incentivare la domanda. La strategia per la Crescita digitale va nella giusta direzione, avendo adottato la filosofia del “digital first” e facendo riferimento allo switch off nella PA.
Nella giusta direzione, dice. Quindi non basta?
Non basta. Prima cosa perché lo switch off è un obiettivo a tendere, visto che non ci sono date certe sullo spegnimento dell’analogico. E poi perché è puerile sperare che il mercato adotti autonomamente il digitale. Mi spiego: il problema è che oggi, paradossalmente, il digitale costa più dell’analogico. Andare allo sportello a pagare una bolletta costa meno che pagarla via web dove ci sono sovrapprezzi; fare la fila ai caselli autostradali costa meno che utilizzare il Telepass che ha un costo di servizio in più. Finché il digitale costerà così non ci sarà nessuno switch off, al di là di tutte le buone intenzioni di questo governo.
Dunque che si dovrebbe fare?
Una cosa molto semplice: invertire i prezzi relativi dei servizi analogici e digitali, facendo pagare l’analogico per quello che costa realmente a livello di uffici, personale e altro. Sono convinto che in tre giorni – tre giorni non tre anni – lo switch off sarà possibile. Ma va cambiata l’impostazione di fondo delle politiche per il digitale.
Ovvero?
Bisogna superare la convinzione che il digitale è un mercato, che è uno strumento per efficientare la pubblica amministrazione.
Cos’è invece?
Un modo di organizzare la res publica. L’Agenda Digitale è nuova Costituente dei patti di convivenza civile e di servizio pubblico, non un mero aggiornamento del software per dipendenti pubblici o “sportello elettronico” per cittadini. È la continuazione della politica con mezzi tecnologici, insomma. E in questo contesto Internet va vista come un sistema operativo economico-sociale tanto quanto lo sono stati fino ad oggi il diritto pubblico e il diritto privato: è strumento efficace di politica economica inclusiva e abilitante alla crescita competitiva, leva per supportare la competitività delle imprese e tutelare il potere di acquisto delle famiglie.
Tornando alle reti, si parla molto del ruolo che la Cassa Depositi e Prestiti può svolgere nel raggiungimento degli obiettivi del piano. Lei che idea si è fatto?
Ritengo che i soldi pubblici siano l’ultimo dei problemi. Quello che deve fare lo Stato è creare condizioni regolatorie, stabili e certe, per il ritorno degli investimenti che fanno gli operatori. Semmai, poi, si possono pensare a forme diverse di intervento, se quella rete non raggiunge la remunerazione stabilita.
A che tipo di interventi pensa?
A bond convertibili come garanzia. Se il ritorno degli investimenti c’è, gli operatori saranno ben felici di restituire i soldi allo Stato. Se invece la rete è un colabrodo – e sarebbe comunque grande responsabilità dello Stato che ha sufficientemente spinto la domanda di digitale – il bond si converte in azioni. Lo abbiamo fatto per salvare il Monte dei Paschi di Siena, non vedo perché non bisognerebbe farlo anche per investimenti in grado di rilanciare la produttività come, appunto, quelli relativi all’infrastrutturazione digitale del Paese. Ma l’idea che lo Stato ci debba mettere i soldi, proprio no.
Nel contesto disegnato dal piano banda ultralarga, crede che sia utile una società della rete tipo Metroweb partecipata da tutti o a maggioranza Telecom Italia, oppure basteranno gli investimenti dei singoli operatori privati supportati dal capitale pubblico nelle aree bianche e grigie?
Solo gli operatori possono decidere se sia conveniente creare una newco per la gestione della dorsale fino al cabinet, anche perché quel tipo di rete è quasi un monopolio naturale come dimostra il caso di Terna. Ma anche in questo caso non considero vantaggiosa una partecipazione diretta dello Stato che, invece di occuparsi di ingegneria societaria, deve vigilare attraverso l’Antitrust che quella eventuale società rispetti il regime di concorrenza. Per quanto riguarda le quote maggioranza- Telecom Italia sì, Telecom Italiano – anche in questo caso spetta agli operatori di settore decidere qual possa essere la la soluzione più vantaggiosa.
BANDA ULTRALARGA
Carnevale Maffè: “PA più digitale? Sportelli più cari del servizi online”
L’economista e docente della Bocconi: “Spingere l’acceleratore sulla domanda di Internet anche usando la leva economica”
Pubblicato il 16 Mar 2015
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