La lettura del decreto Crescita 2.0 si è rivelata una sorpresa in quanto, con le cose che mancano, ci sarebbe da scrivere un nuovo decreto Crescita 3.0. Crediamo siano dimenticanze dovute al poco tempo a disposizione per l’elaborazione, ma – se ci è concessa una prima critica – anche alla poca collegialità con cui si è lavorato al documento. Nel dl manca una ridefinizione del Codice delle Comunicazioni in diverse parti, non considera una platea di soggetti abilitabili al ruolo di realizzatori e gestori delle reti del futuro, così come sancito anche dall’art. 43 della Costituzione. Cittadini e imprese, a qualsiasi livello, devono avere libertà d’intrapresa in ogni settore economico, eppure nelle Tlc, dove le complicazioni tecnologiche si sono pressoché azzerate, sono rimaste barriere che distorcono il mercato e la concorrenza. Eppure il Codice riporta: “Art. 3 – Principi generali – 1. Il Codice garantisce i diritti inderogabili di libertà delle persone nell’uso dei mezzi di comunicazione elettronica, nonché il diritto di iniziativa economica ed il suo esercizio in regime di concorrenza, nel settore delle comunicazioni elettroniche”.
L’esempio dell’incongruenza tra annunci e realtà lo si trova ad esempio nei vincoli contenuti nell’allegato 10 del Codice delle Comunicazioni. Si annunciano stimoli per la nascita di nuove imprese, ma gli si fa capire che in alcuni settori non possono mettere il naso poiché occorre “sganciare “ un assegno “ a perdere” al Mise dai 30mila ai 120mila euro entro il 31 gennaio di ogni anno, per essere “autorizzati”. Non vi è una reale logica di proporzionalità, non dipende dal fatturato o dalla dimensione del parco clienti, se così fosse i grandi operatori dovrebbero pagare milioni. Invece è penalizzata l’esperienza bottom-up, quella che più di altre mira ad abbattere il tanto odiato Digital divide e a generare ricchezza reale nel territorio. Tutela delle rendite di posizione del debitore della più grande banca italiana?
Nel decreto manca un ulteriore modifica del Codice delle Comunicazioni che consenta di elevare al rango di interlocutori, così come avviene in tante altre parti d’Europa, i cittadini per renderli liberi di realizzare la cablatura del loro condominio, del loro quartiere, dell’area rurale, di essere parte attiva dello sviluppo del territorio di appartenenza.
L’esempio lampante lo si trova all’art. 14 dove si parla di servitù coatta. La servitù degli edifici privati deve essere limitata anziché ampliata, introducendo la possibilità per il proprietario, di scegliere se realizzare da sé gli impianti oppure affidarsi ad aziende di sua fiducia o far fare all’operatore con regole ben precise sulla proprietà finale dell’opera. Con la norma introdotta invece si da piena libertà alla realizzazione del monopolio di fatto, ulteriore regalo a chi detiene la posizione dominante del mercato. Norma unidirezionale che invece andrebbe rivista anche in logica di completa apertura delle centrali dell’incumbent. Infine la Pec. Assoprovider dopo essere stata tra i promotori e sperimentatori del servizio si è ritrovata dinanzi allo scoglio del capitale sociale di 1 milione di euro che ha impedito ai tanti professionisti della rete, che sono a stretto contatto ogni giorno con le aziende, di poter offrire direttamente questo servizio. Un capitale sociale cinque volte più alto di quello necessario per la “conservazione sostitutiva”, come mai? Siamo anche qui nell’ambito della tutela di certi interessi? La credibilità del Crescita 2.0, così come formulato, ne esce fortemente ridimensionata se non vi saranno ulteriori modificazioni che abbiano come obiettivo quello di favorire la partecipazioni di tutti al rilancio dell’economia.