Nella parte introduttiva del report annuale dell’International Labour Organization (Ilo), è riportata un’affermazione illuminante: “In breve, questo rapporto chiede ai Paesi di mettere in pratica le condizioni necessarie per un deciso cambiamento nell’attuale approccio politico. Mette in risalto la necessità di un approccio che riconosce l’importanza di porre il lavoro in cima all’agenda politica e la necessità della coerenza tra politiche macroeconomiche, dell’occupazione e del sociale”.
Il lavoro in cima. Ma quale lavoro? Se sono vere le proiezioni dell’Ue, nei prossimi anni il tipo di lavoro è destinato a trasformarsi radicalmente. Soprattutto nelle società “avanzate” europee il lavoro dovrà diventare sempre più un lavoro ad alto contenuto di conoscenza e di tecnologia, e quindi lavoro in cui i parametri “tempi e orari” saranno sempre meno significativi, l’identificazione della “sede” sempre meno possibile, la dimensione del “dipendente” e del “subordinato” sempre meno diffusa. Lavoratori nomadi, che si connettono dai propri computer, dagli smartphone, ma anche costantemente in viaggio per realizzare idee e contenuti, per i quali il telelavoro non è un’eccezione, ma la normalità. Lavoratori fragili, perché per loro natura indipendenti e in continua relazione con le diverse comunità, ma non parte di una struttura. E per questo non salvaguardati.
In Italia lavoratori della conoscenza è sinonimo di precarietà. E chi è precario è un passo avanti, perché i giovani, che in gran parte sono naturalmente “lavoratori della conoscenza”, di lavoro non ne trovano. E finiscono per non cercarlo più. Sempre dal Rapporto dell’Ilo, in Italia “ la disoccupazione giovanile, salita al 32,6% durante il 4° trimestre del 2011, è più che raddoppiata dall’inizio del 2008. [..] Inoltre, molti lavoratori escono completamente dal mercato del lavoro: nello scorso anno, il tasso dei lavoratori che non cercano più lavoro ha raggiunto il 5% del totale della forza lavoro. Il numero dei Neet ha raggiunto il livello allarmante di 1,5 milioni.”
Se la crescita italiana dipende anche in gran parte dalla sua capacità di innovare nei prodotti e nei servizi, i lavoratori della conoscenza e in particolare i giovani non possono essere ai margini. Anche perché non esiste un “destino di progresso”. Lo sappiamo, il futuro bisogna costruirselo.
Questo ci aspettiamo anche dall’Agenda Digitale Italiana in corso di elaborazione. Che delinei una visione di società, di futuro a cui tendere, a cui il piano strategico (l’agenda digitale, appunto) sia funzionale.
L’Ilo ci avverte che questa visione deve mettere al centro il lavoro. Il nuovo lavoro, un lavoro del tutto diverso da quello oggi regolamentato e salvaguardato. Basato su un modello che privilegi la creatività, la libera circolazione delle idee, la condivisione, il riuso, il remix, come pilastri della creazione di valore. In cui la contaminazione di comunità e di lavoratori di aziende diverse diventa un presupposto per innescare processi creativi e per stimolare miglioramenti nella qualità della vita.
L’attuale declinazione degli obiettivi dell’Agenda si sofferma su questo nodo: non è delineato un nuovo modello di lavoro, non ci sono i nuovi lavoratori, non c’è un nuovo welfare. Non ancora, almeno. Eppure, è proprio nel documento strategico dell’Agenda Digitale che si devono porre le condizioni per la trasformazione sociale di cui abbiamo bisogno e che è alla base della possibilità di riprendere a migliorare la qualità della vita. I tempi sono stretti. E senza una visione organica del futuro non ci sono strategie vincenti.