Nel dietro le quinte del complesso e lungo passaggio al digitale terrestre c’è una donna, Eva Spina, dirigente del ministero dello Sviluppo economico, che, alla guida di un piccolo gruppo di tecnici e responsabili del ministero, ha consentito che si realizzasse l’operazione storica di portare 60 milioni di italiani verso la televisione di nuova generazione.
Come è arrivata al ministero?
Il mio ingresso ufficiale nella Pubblica amministrazione risale al 2002 e a un concorso vinto. Era per dirigenti “generalisti” che potessero servire la PA in maniera trasversale con un know-how tale da poter essere impiegato in qualunque tipo di amministrazione. Entrai nel Segretariato generale al ministero delle Comunicazioni.
Il suo background era però giuridico…
Sì, sono un avvocato. Ho dovuto acquisire sul campo nuove conoscenze nel settore tecnico. Si può dire che sia diventata “bilingue” lavorando in questo ministero, soprattutto nel lungo training maturato con l’incarico che ho assunto per organizzare il passaggio al digitale terrestre.
Una bella palestra, vista la portata storica del passaggio. Iniziò però in sordina, anni fa. Ci racconta come è andata?
La prima unità organizzativa, il Comitato Nazionale Italia Digitale, risale al 2006. Con una formula innovativa coinvolgemmo tutti i soggetti e gli attori interessati dal passaggio al digitale: televisioni, Regioni, enti locali, produttori di decoder, rivenditori, installatori, associazioni di consumatori e altri. L’idea era di stimolare la partecipazione per creare sinergia tra gli addetti ai lavori. Era una struttura politica presieduta dal ministro dello sviluppo. Sul fronte più operativo e tecnico furono costruite, invece, task force regionali che ho coordinato fino al termine del passaggio nel 2012.
A quale aspetto avete dovuto prestare maggiore attenzione?
Dovevamo fare in modo che il passaggio avvenisse nel modo più ordinato possibile e con il minor disagio per i cittadini. Il passaggio tecnico più rilevante fu la riassegnazione delle frequenze. Le emittenti televisive ne avevano numerose, ma nel passaggio al sistema del Single Frequency Network avrebbero dovuto ricondurle a una sola attraverso uno spegnimento ordinato delle vecchie e una contestuale riaccensione di quella nuova. Era necessario che tutti lo facessero nello stesso momento, in caso contrario il disturbo avrebbe reso irricevibile il segnale sulle altre frequenze. Abbiamo dovuto delimitare il Paese in aree territoriali e creare un calendario dei lavori, con data e orario per ciascun impianto. Lo spegnimento doveva essere comunicato al ministero in tempo reale dalle emittenti in modo da alimentare un call center per rispondere alle richieste dei cittadini.
Processo oggi terminato?
Sì, le operazioni di transizione sono state chiuse il 4 luglio 2012. Palermo è stata l’ultima città a passare al Dtt. Il segnale analogico è scomparso. Abbiamo, però, dovuto provvedere in seguito a una modifica sull’assegnazione delle frequenze digitali.
Per la gara Lte?
Sì. La gara per la cessione di nove canali televisivi agli operatori delle Tlc fruttò allo Stato circa 4 miliardi di euro. A decorrere dal primo gennaio 2013 avrebbero dovuto essere disponibili per i vincitori. L’iter legislativo iniziò con la Legge di Stabilità del 2010. Nelle Regioni in cui il digitale non era ancora arrivato provvedemmo a tenere libere queste frequenze, ma per dieci Regioni, in gran parte al Nord, dove risiede il 70% della popolazione, occorreva recuperarle. Procedemmo in due fasi: prima con misure compensative per chi avesse liberato volontariamente le frequenze e poi attraverso una selezione basata su criteri tecnici di valutazione. Le ultime emittenti in graduatoria avrebbero perso il diritto d’uso di una frequenza da riassegnare agli operatori Tlc.
Ricordo scetticismo sulla possibilità di riuscire nell’operazione…
Molti sostennero che il ministero non sarebbe riuscito a ottenere il risultato in tempo, ma così non fu. L’importo della gara era pari a metà valore di una Legge Finanziaria. Gli interessi passivi da pagare avrebbero annullato i benefici economici del progetto di sviluppo.
Si sentì sotto pressione?
In realtà la pressione ci fu durante tutti i giorni dello switch off. All’inizio quasi nessuno ci credeva, ma abbiamo iniziato a far rispettare le date che il ministero aveva fissato e acquisimmo credibilità sul campo. La Sardegna fu la prima nel 2008. Dissero che aveva pochi abitanti, ma poi abbiamo digitalizzato l’Italia. Nel dicembre 2012 la pressione lavorativa per la banda 800 fu elevatissima. Lo spegnimento doveva avvenire in 10 regioni contemporaneamente come non avevamo fatto neppure durante lo switch off. Fu una sfida organizzativa e curiosamente anche meteorologica: molti impianti da spegnere erano in montagna. Quando al primo gennaio abbiamo comunicato la disponibilità delle frequenze si respirava aria di meritata soddisfazione.
Il team di lavoro era ampio?
No, tutt’altro. Piccolo, ma compatto. Ci aiutò anche la Fondazione Ugo Bordoni.
Può questa esperienza diventare una best practice?
In qualche modo lo è già. Non sono mancate le richieste di altri Stati per capire come fosse avvenuto lo switch off. A dicembre abbiamo ricevuto una delegazione del ministero delle comunicazioni della Corea del Sud. L’anno prima quella dell’Indonesia. Nel 2008 l’Italia fece davvero da apripista: la Sardegna fu la più ampia area in digitale d’Europa. Mentre gli altri procedevano con paesini da 15mila abitanti il nostro passaggio interessò una popolazione di 1 milione e mezzo di persone. Il “modello Sardegna” fu via via affinato e arrivammo in Sicilia nel 2012 quando era praticamente perfetto.
Qual è stato il meccanismo vincente?
L’idea di base fu la condivisione, il coinvolgimento del numero più ampio possibile di stakeholder per acquisire suggerimenti e assicurare l’operatività.
Prossimo impegno?
La gara per le frequenze Tv che dovrà chiudere la famosa procedura d’infrazione nata nel 2006.
Su cosa si basa secondo lei lo “sviluppo economico”?
Nasce, come d’altra parte è accaduto per la funzione esercitata dal ministero, da più anime. Ci sono elementi industriali, giuridici e tecnologici insieme. Lo sviluppo vuole investimenti finanziari e strumenti di innovazione, ma c’è anche un aspetto ineliminabile ed è quello umano. Lo sviluppo deve essere equilibrato.
Quale grande partita affronta oggi l’Italia?
L’Agenda digitale. Va realizzata e potrebbe essere un buon volano per le aziende di settori molto diversi. La tecnologia può diventare un trampolino di lancio per lo sviluppo di altre attività economiche.
Ma servono più infrastrutture o migliori leggi?
Sicuramente le infrastrutture: per portare la banda larga, per esempio, si sta agendo su questo fronte. Lo sviluppo comunque trova terreno fertile dove ci sono minor lacci burocratici. Lo Stato deve fare la sua parte e portare semplificazione.