I nuovi dazi annunciati da Trump rischiano di ridefinire l’assetto economico globale, con effetti particolarmente pesanti sul settore delle telecomunicazioni. Il provvedimento, entrato in vigore il 5 aprile, prevede un dazio del 10% su tutte le importazioni e tariffe più alte verso i paesi con cui gli Stati Uniti registrano maggiori disavanzi commerciali: Cina (54%), Vietnam (46%) e Unione Europea (20%).
L’aumento dei costi su beni chiave come smartphone, 5G, fibra ottica e sistemi di networking sta già scuotendo la filiera produttiva mondiale. Gli operatori del settore telecomunicazioni, pur mantenendo un basso profilo pubblico, segnalano preoccupazione. “I dazi riducono la crescita della connettività per consumatori e imprese”, ha dichiarato Melissa Newman, vicepresidente della Telecommunications Industry Association, ribadendo la volontà di collaborare con l’amministrazione.
Gary Shapiro, ceo della Consumer Technology Association, ha parlato di “massicce tasse sugli americani” che potrebbero “aumentare l’inflazione, distruggere posti di lavoro e spingere l’economia in recessione”.
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Supply chain sotto pressione
I dazi aggravano una situazione già complessa per le supply chain del comparto tech. Nonostante negli ultimi anni le aziende abbiano cercato di diversificare la produzione, spostandosi da Cina a Vietnam, India e Malesia, le nuove tariffe vanificano in parte questi sforzi. “Le aziende avevano ridotto la dipendenza dalla Cina, ma ora le alternative asiatiche sono anch’esse colpite”, osserva Jitesh Ubrani di Idc.
Secondo Jason Miller, docente alla Michigan State University, gli Stati Uniti sono “molto dipendenti dalle importazioni di componenti critici per le telecomunicazioni”, e gli aumenti dei prezzi sono inevitabili. L’analista Jimmy Yu di Dell’Oro Group spiega che le apparecchiature a maggiore contenuto hardware — come sistemi ottici e di trasmissione a microonde — subiranno i rincari più pesanti.
Impatto su produttori e operatori
Le conseguenze varieranno tra i diversi vendor. Secondo Leonard Lee di neXt Curve, produttori come Ericsson e Nokia, che hanno una solida presenza manifatturiera negli Stati Uniti, risentiranno meno dei dazi. Al contrario, aziende come Dell, Hpe e Supermicro, con catene di montaggio localizzate prevalentemente in Cina e Taiwan, saranno maggiormente penalizzate.
Ciena, attraverso il Cfo James Moylan, ha fatto sapere di non aver ancora incluso l’impatto dei dazi nella propria guidance finanziaria, confidando nella diversificazione produttiva tra Canada, Messico, India e Thailandia.
Il rischio, sottolineano gli analisti, è che l’aumento dei costi si rifletta direttamente sulle tariffe applicate agli utenti finali da parte degli operatori, con effetti su tutta la filiera della connettività.
Smartphone e dispositivi: rincari in vista
Gli effetti sui consumatori saranno immediati, in particolare nel settore dei dispositivi mobili. Secondo le stime di Rosenblatt Securities, il prezzo degli iPhone potrebbe aumentare del 43%. Il modello di punta, iPhone 16 Pro Max con 1 TB di memoria, venduto oggi negli Stati Uniti a 1.599 dollari, potrebbe arrivare a quasi 2.300 dollari.
In Italia, considerando Iva e altre imposte, il prezzo finale potrebbe superare i 2.500 euro. I rincari non riguarderanno solo gli smartphone ma anche accessori come laptop, auricolari e smartwatch, tutti prodotti prevalentemente in Cina o Vietnam.
Avi Greengart di Techsponential avverte che “l’aumento dei costi dei dispositivi potrebbe allungare i piani di finanziamento e rallentare i cicli di rinnovo degli smartphone”.
Reazioni politiche e finanziarie
Il malcontento monta anche tra i big della finanza e della tecnologia. Secondo la giornalista Kara Swisher, un gruppo di ceo della Silicon Valley starebbe organizzando un incontro a Mar-a-Lago per “leggere il Riot Act” a Trump, esprimendo forte dissenso per le politiche commerciali adottate.
La tensione è palpabile anche tra figure tradizionalmente vicine a Trump. Elon Musk, ad esempio, ha criticato pubblicamente Peter Navarro, consigliere commerciale della Casa Bianca, definendolo ironicamente “un problema da Harvard” in riferimento al suo dottorato.
Nel frattempo, Wall Street ha già reagito: nelle prime 48 ore dall’annuncio delle tariffe, si sono volatilizzati oltre 5.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Le azioni di Apple, Amazon, Tesla e Meta hanno registrato i ribassi più significativi.
Gli esponenti dell’amministrazione, come Kevin Hassett e Scott Bessent, minimizzano il rischio di recessione, sostenendo che oltre 50 Paesi avrebbero già chiesto di aprire negoziati. Tuttavia, le trattative commerciali richiedono tempi lunghi e, nel frattempo, l’incertezza regna sui mercati.
Una strategia economica discutibile
Un altro elemento che ha sollevato critiche è il metodo di calcolo delle tariffe. Un’inchiesta di The Verge ha evidenziato come il modello adottato dalla Casa Bianca — basato su una formula semplificata per bilanciare i deficit commerciali — ricordi da vicino i suggerimenti dati da piattaforme di intelligenza artificiale come ChatGpt e Gemini. L’economista James Surowiecki ha definito la formula “straordinariamente insensata”, sottolineando che i rapporti commerciali internazionali non possono essere ridotti a semplici operazioni aritmetiche.
Robert Atkinson, presidente della Information Technology and Innovation Foundation, ha ribadito che “molte aziende tecnologiche non possono sopravvivere senza l’accesso ai mercati globali” e che il protezionismo “rischia di trasformare America First in America Alone”.