Il datore di lavoro, quando in gioco c’è l’immagine della sua impresa e il patrimonio aziendale, può controllare la posta elettronica dei dipendenti per accertare comportamenti scorretti, come l’insider trading, che non hanno nulla a che fare con quanto previsto dal contratto di lavoro. Lo sottolinea la Cassazione confermando il licenziamento di un alto dirigente di un istituto di credito che speculava su informazioni finanziarie riservate.
Con questa decisione – sentenza 2722 della sezione Lavoro – la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un ex dirigente della Bipop Carire, incorporata nella banca Unicredit, contro il licenziamento in tronco inflittogli il 15 aprile del 2004 "per aver divulgato a mezzo di messaggi di posta elettronica, diretti ad estranei, notizie riservate concernenti un cliente dell’Istituto e di aver posto in essere, grazie alle notizie in questione, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggio personale".
Sia in primo grado che in appello, con sentenza del 13 ottobre 2009, i giudici di merito avevano confermato il licenziamento ritenendo non contrastante con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori "il controllo della posta elettronica del dipendente, in quanto diretta ad accertare ex post una condotta attuata in violazione degli obblighi fondamentali di fedeltà e riservatezza e postasi in contrasto con l’interesse del datore". Secondo la corte d’Appello di Brescia il comportamento del manager era stato di «indubbia gravità e particolarmente lesivo dell’elemento fiduciario in quanto il suo comportamento nasceva da un abuso della sua elevata posizione professionale".
Senza successo Alfredo B., il dirigente licenziato, ha contestato la legittimità del licenziamento sostenendo che erano illeciti i controlli effettuati sulle sue e-mail. Ma la Cassazione gli ha risposto che un caso del genere non rientra nella tutela prevista dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che vietano i controlli datoriali troppo invasivi. In questa vicenda, osserva la Suprema Corte, "il datore di lavoro ha posto in essere un’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere". «
"ll cosiddetto controllo difensivo in altre parole, non riguardava – spiega la Cassazione – l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa immagine dell’Istituto bancario presso i terzi". In questo caso – conclude la Suprema Corte – "entrava in gioco il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, che era costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico. Questa forma di tutela egli poteva giuridicamente esercitare con gli strumenti derivanti dall’esercizio dei poteri per effetto della sua supremazia sulla struttura aziendale".