Poter riassumere il caso Telecom unicamente con l’Opa del 1999 è una operazione del tutto riduttiva e fuorviante. In verità di “peccati originari” ce ne sono stati tanti, ed alcuni forse ancor più condizionanti. La storia però non è ancora terminata, e lo sviluppo dei nuovi mercati digitali impone un moderato ottimismo sul ruolo strategico della rete e sul rilancio aziendale. Ma per pianificare un futuro alternativo bisogna far tesoro dei tanti errori. Ecco un documento di sintesi con tutti i principali numeri degli ultimi 20 anni.
LA PRIVATIZZAZIONE (1997)
Si parte dalla privatizzazione del 1997 voluta dal Governo Prodi per far cassa ed entrare nella zona euro. Prima di quella data, l’azienda è quotata come una delle migliori al mondo per innovazione, impatto occupazionale e proiezione internazionale. Frutto del grande lavoro di manager del taglio di Ernesto Pascale e Vito Gamberale.
Il Governo non prende in considerazione il piano proposto dalle associazioni di far aderire al capitale gli oltre 100.000 dipendenti che avrebbero sottoscritto circa il 3% delle azioni aprendo la strada all’azionariato diffuso. Si preferisce piuttosto porgere su di un piatto d’argento l’azienda a un pool di soci in cui spiccava al comando la Fiat con lo 0,6% delle azioni all’interno di un nocciolino che possedeva il controllo con appena il 6% del capitale. Mentre scrivevo il libro “Goodbye Telecom”, in un rapporto epistolare chiesi a Romano Prodi spiegazioni su quella scelta e sulle debolezze del capitalismo italiano. La risposta fu la seguente: “Credo che questo vostro lavoro serva a chiarire uno degli episodi più oscuri delle nostre recenti vicende economiche e politiche. Non si tenda però a concludere che malefatte individuali siano da addebitare alle pur esistenti mancanze del capitalismo”.
LA PRIMA OPA (1999)
Nel 1999, con il benestare del Governo, un manipolo di imprenditori padani capeggiati dal ragionier Roberto Colaninno scalano l’azienda attraverso un’Opa da 30 miliardi di euro, di cui poco più della metà a debito (16 miliardi). Ad indebitarsi è la Olivetti attraverso un intricato sistema di scatole cinesi terminanti nella Tecnost, che dopo l’Opa controlla Telecom con il 51% delle azioni. “Una operazione alla luce del sole, differente da tutte le altre prese di nascosto” sostiene Massimo D’Alema intervistato dal sottoscritto in merito alle ragioni di quella scelta. Una operazione a suo tempo definita dal Financial Times come “una rapina in pieno giorno” visto che metà azionisti hanno scalato l’azienda per buona parte a debito e l’atra metà, tra cui naturalmente dipendenti e piccoli azionisti, hanno investito interamente di tasca propria. “In quel periodo la sinistra dei salotti buoni si faceva impressionare persino dal primo “parvenu“ arrivato con una maserati” concluderà così la sua intervista il senatore Silvio Sircana, all’epoca consigliere di Romano Prodi.
IL RILEVERAGE BUYOUT (2001)
Nel 2001 cambia il Governo, ritorna Berlusconi e i “capitani coraggiosi” sono costretti a passare la mano a nuovi “capitani coraggiosi”. Arrivano Pirelli, Benetton e due primarie banche che riscalano l’azienda prevalentemente a debito rilevando le quote indebitate di Colaninno & company. Il nuovo Presidente è Marco Tronchetti Provera. Per evitare rilevanti esborsi monetari i nuovi azionisti di controllo compiono una sorta di rileverage buyout facendo leva sul debito, nella stessa maniera dei loro predecessori. I debiti dell’Opa avrebbero dovuto essere infatti isolati con una graduale riduzione delle quote di Olivetti nel capitale di Telecom, specialmente quando il mercato azionario iniziava il trend di decrescita negli anni successivi. Ma la fretta e la mancanza di capitali induce i nuovi scalatori a intraprendere la solita scorciatoia dei debiti strapagando inoltre azioni che sul mercato valevano quasi la metà.
LA FUSIONE DEI DEBITI (2003)
Per compiere in pieno il più pantagruelico e gargantuesco dei leverage buyout manca però ancora l’ultimo passo: la fusione tra la scatola dei debiti (Olivetti-Tecnost) e la società preda o target (Telecom Italia). Nel 2003 si procede infatti con la fusione della scatola Olivetti (16 miliardi di debiti a fronte di soli 1,1 di fatturato da attività proprie) con il Gruppo Telecom Italia (30 miliardi di fatturato e circa 20 miliardi di debiti). Lo scopo è quello di mettere in sicurezza l’equilibrio finanziario del sistema di partecipate della Pirelli su cui grava il debito. “Il debito dell’OPA, per quanto condizionante, Colaninno non lo aveva scaricato sulla Telecom. Fu quella una scelta successiva, decisa e attuata da Olimpia (Pirelli), che insieme ad altre operazioni quali l’OPA su TIM hanno reso anomalo l’indebitamento di Telecom Italia” scrive Vito Gamberale nella sua Lectio Magistralis presso l’Università di Tor Vergata per la Laurea Honoris Causa in Ingegneria delle telecomunicazioni (2008). Per far fronte agli enormi debiti scaricati sull’azienda (21 miliardi di euro, di cui 16 di debiti e 5 per il diritto di recesso) la Pirelli oltre alle centrali telefoniche vende buona parte delle attività internazionali intraprese dalle gestioni precedenti, con inoltre una riduzione del personale di circa il 30%.
L’OPA SU TIM (2005)
Durante la gestione di Tronchetti Provera, Telecom compra le rimanenti azioni della sua stessa divisione mobile (Tim), già controllata in maggioranza per circa il 60%, e perlopiù in un mercato in via di saturazione. Una operazione prevalentemente speculativa che difficilmente potrebbe essere giustificata con motivazioni tecnologiche.Per rastrellare tutte le restanti azioni Tim sul mercato l’indebitamento del Gruppo Telecom lievita temporaneamente a quota 46,7 miliardi dai 21,9 del Bilancio 2001 (anno di arrivo della Pirelli). Da notare che oggi quelle stesse azioni della Tim valgono meno di un quinto delle quote delle partecipate estere cedute nello stesso periodo (il cui valore odierno complessivo ai multipli attuali è di circa 35 miliardi di euro). Da questo momento il destino dell’azienda è segnato. In questa gestione si assiste infatti ad un incremento dei debiti del Gruppo Telecom (da 21,9 miliardi del 2001 ai 37,3 miliardi del 2006) contemporaneamente ad una massiccia dismissione di asset, così come sottolineerà certamente pure Vito Gamberale nella Lectio Magistralis: “Tra alienazioni estere, spin off immobiliari, Opa su Tim, il saldo è di un sostanziale incremento del debito”.
L’EPOCA DI TELCO (2007-2013)
Nel 2007 dopo un nuovo cambio di Governo, Pirelli e Benetton escono di scena lasciando il timone al Gruppo Telco (Mediobanca, Intesa, Generali e Telefonica). La Governance in questa fase è avvolta da tutta una serie di screzi. Rimane tra mito e leggenda il mai pubblicato “Rapporto Deloitte” che esiste ed è chiarissimo circa lo spionaggio illegale. A riguardo alcuni soci di controllo non gradiscono la presenza di Franco Bernabè come garante dell’azienda e il Cda si oppone alla azione di responsabilità proposta dai piccoli azionisti. Gli enormi debiti e la mancanza di innovazione frenano gli investimenti nella banda larga e Telecom perde 8 miliardi di fatturato in sette anni. Vengono ridotti in compenso i debiti netti che passano dai 35,7 del 2007 ai 26,8 miliardi del 2013.
LE SCALATE ESTERE (2013-2015)
L’azienda è oramai spolpata di tutti i suoi maggiori asset, i dipendenti dimezzati, la Governance fortemente instabile ed il titolo in costante calo. Ed è così che nel 2013 Telefonica con un titolo che raggiunge il suo minimo storico scala l’azienda. L’operatore spagnolo era prevalentemente interessato ad una nuova operazione speculativa con oggetto la vendita di Tim Brasil. La partecipata carioca non verrà però venduta perché Telefonica cederà nel 2015 il posto ai francesi di Vivendi dell’imprenditore bretone Vincent Bollorè. Cosa avrebbero detto tutti quei “boiardi” di Stato, che nel 1998 giocando a Risiko pianificavano la scalata su Telefonica, se avessero saputo che vent’anni dopo spagnoli e francesi avrebbero preso il comando dell’azienda?
OPEN FIBER (2015-2018)
Arriviamo ai giorni nostri dove l’ex Governo Renzi si pone il problema di un Paese nelle ultimissime posizioni per infrastrutture in banda larga. Telecom assomiglia ad un gigante dai piedi d’argilla dove gli enormi debiti iniziano a pesare ora anche sul sistema Paese. Cosa fare? Intervenire dentro Telecom od escogitare un piano alternativo? L’opzione è la seconda e si chiama Open Fiber. Telecom risponde nel migliore dei modi, dando una notevole accelerata ai suoi piani di cablatura. Dal 2015 ad oggi la percentuale di case passate in Fttc (fibra fino all’armadio di strada) passa dal 20% all’80%. In pratica viene fatto negli ultimi tre anni quello che non è stato fatto in 15 anni. Il problema è che si tratta di Fttc e non Ftth. Ma non si possono fare certamente miracoli in una azienda che ha 19 miliardi di fatturato e 30 miliardi di debiti lordi.
LA FUSIONE DELLE RETI (2019)
Una possibile fusione con Open Fiber avrebbe sicuramente molti effetti positivi sul sistema Paese. Si eviterebbero da una parte duplicazioni di costi relativi a una doppia infrastruttura parallela con due soluzioni distinte e allo stesso tempo si convergerebbe verso un unico piano di sviluppo accelerato sulla fibra fino a casa, senza però rottamare anticipatamente il rame che è fonte di flussi di cassa. Il modello wholesale only della società unica della rete permetterebbe inoltre di fare accedere tutti i concorrenti a parità di condizioni, anche quelli piccoli e piccolissimi, favorendo lo sviluppo delle reti in 5G che avranno bisogno di un unico backbone. Il modello faciliterebbe anche un riutilizzo razionale delle infrastrutture civili esistenti con il fine di risparmiare sugli scavi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che lo Stato rientrando nel controllo della rete avrebbe vantaggi dal punto di vista strategico, politico e militare. Gli effetti negativi sarebbero costituiti invece dalla fine di questa concorrenza infrastrutturale che per il momento ha regalato succosi frutti. Ma nel complesso gli effetti di una fusione sarebbero sicuramente molto positivi.
La società della rete dovrebbe essere inizialmente posseduta in maggioranza da Telecom Italia che conferirebbe nella Netco (la società della rete scorporata) la sua rete (fino alle SGU) e parte dei suoi debiti, con una buona partecipazione della Cdp. Successivamente potrebbero entrare altri azionisti quali ad esempio Open Fiber che avrebbe a questo punto due opzioni. La prima sarebbe quella di rilevare quote azionarie minoritarie ma consistenti a prezzi minimi (il debito conferito nella Netco compenserebbe il valore della rete di Telecom). La seconda sarebbe quella di conferire la sua nuova rete nella Netco in cambio di quote di maggioranza. Dei due scenari possibili, ritengo che il primo sia quello più semplice ed immediato. Non si tratterebbe di una vera e propria fusione delle reti ma le due aziende si troverebbero ad elaborare piani di sviluppo sinergici ed efficienti con un unico garante che sarebbe lo Stato. La compartecipazione azionaria renderebbe di fatto indispensabile un piano strategico unico e condiviso al livello tecnologico e commerciale. Evitando così tutte le difficoltà di una fusione completa che potrà però avvenire nel futuro.
L’ERA DEL PROTEZIONISMO DIGITALE (2020)
Ovviamente dovrà essere condiviso con lo Stato un piano di riassorbimento delle risorse eccedenti che andrebbero veicolate verso i nuovi mercati emergenti (Internet delle cose, contenuti, industria 4.0, telemedicina….) attraverso la creazione di nuove unità aziendali all’interno della Serco (la rimanente società dei servizi di Telecom). Quest’ultima si troverebbe ora a vendere qualsiasi cosa, dai servizi tradizionali di Tlc ai pacchetti multisettoriali. Fondamentale sarà ancora una volta il ruolo del Governo nella difesa di un settore che in seguito alle speculazioni degli Over the top ha ridotto di gran lunga il suo impatto occupazionale sul sistema Paese indebolendo un Paese che non possiede più il controllo sulla sua infrastruttura più importante. Il futuro dunque non è ancora scritto, e non si esclude affatto la possibilità di un ritorno in auge degli operatori di rete nel più classico dei corsi e ricorsi storici di matrice vichiana. La storia insegna che tutti gli eventi, compresi gli andamenti di borsa, hanno un andamento ciclico. Una sorta di eterno ritorno dell’identico a se stesso.